Tempo guadagnato, di Wolfgang Streeck. Capitalismo e democrazia

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10 ottobre , 2016

... un interessante testo di Wolfgang Streeck capitatoci per le mani. Come si legge nell’introduzione, “Tempo guadagnato” è la versione ampliata delle lezioni tenute dall’autore [ in occasione delle Adorno-Vorlesungen ] a Francoforte nel giugno del 2012 presso l’Istituto di ricerche sociali di Francoforte. Il libro ha il merito di mettere a tema, anche se da un punto di vista non rigidamente marxista, la questione del rapporto tra capitalismo e democrazia alla luce della rivoluzione neoliberista e le trasformazioni dello Stato che ne sono conseguite.
La tesi iniziale da cui l’autore muove, e che ci sentiamo di condividere, è che sia possibile comprendere la crisi in cui si dibatte il capitalismo del XXI secolo solo se la si interpreta come il culmine provvisorio di un processo più ampio, un processo che ha avuto inizio alla fine degli anni 60 del Novecento con la fine dei cosiddetti Trente Glorieuses.
Prima di aggredire il tema cardine del suo lavoro Streeck fa però i conti con i limiti mostrati dalla “teoria della crisi” elaborata dalla cosiddetta “Scuola di Francoforte” sottolineandone soprattutto l’incapacità di prevedere la finanziarizzazione. Le ragioni di tale incapacità analitica, stando all’autore, sono da ricercare nel modo con cui anche a sinistra venne di fatto accettata l’autodescrizione che l’economia capitalista dava di sé come di un sistema capace di realizzare una crescita stabile e superare definitivamente le sue criticità interne. Nelle teorie di quegli anni le contraddizioni del modo di produzione capitalistico vennero così progressivamente relegate a residuo ideologico di un certo marxismo ortodosso. L’idea condivisa con il pensiero mainstream era che l’economia capitalistica si fosse trasformata in una macchina che produceva benessere e che fosse una questione ormai puramente tecnica.
Il punto di rottura del capitalismo, dunque, non stava più nella sua struttura economica, ma nei suoi modelli politici e sociali. Il problema non riguardava più la produzione di plusvalore quanto piuttosto quello della “legittimazione” del sistema da parte dei salariati.
Nella realtà, come ci ricorda lo stesso Streeck, avvenne esattamente l’opposto. Non furono le masse a negare il consenso al capitalismo del dopoguerra decretandone la fine, bensì il Capitale. Nel sottolineare questo passaggio cruciale l’autore mostra però di maneggiare una concezione dello Stato che non fa i conti con l’analisi marxista, immaginandone una sorta di terzietà rispetto a “coloro che dipendono dal capitale” e a “coloro che dipendono dal salario”, e finendo così per rimanere ostaggio di quegli stessi limiti teorici da lui stesso rimproverati alla Scuola di Francoforte. In realtà dopo il 1945 il capitalismo si era trovato sulla difensiva in ogni parte del mondo e doveva puntare ad ottenere in tutti i paesi dello schieramento occidentale una proroga della sua legittimazione, un rinnovo della sua licenza sociale a fronte di una classe operaia rafforzatasi in seguito alla guerra, al fordismo e alla concorrenza tra i sistemi. Ciò si ottenne solo attraverso le notevoli concessioni previste e rese possibili dalla teoria keynesiana.

Come sostiene l’autore il regime postbellico del capitalismo “democratico” andò però inevitabilmente in crisi di fronte al progressivo esaurimento del ciclo di accumulazione fordista-keynesiano e, per reazione, il Capitale iniziò a preparare la sua uscita dal contratto sociale che aveva sottoscritto nel dopoguerra. A partire dai primi anni Ottanta nelle società occidentali vennero sempre più rifiutati, o comunque messi in discussione, alcuni elementi centrali del keynesismo mentre, in parallelo, tornò a crescere con estrema rapidità la diseguaglianza economica.

Ciononostante, come sottolinea Streeck, nelle ricche società occidentali la lunga transizione al neoliberismo trovò una resistenza decisamente debole e venne anzi accompagnata e favorita da una “rivoluzione culturale” di segno ideologicamente opposto a quello prospettato sul finire degli anni Sessanta. Sempre stando a Streeck in questa “transizione” un ruolo decisivo venne assunto dalla politica statale che, in cambio di denaro, fece guadagnare tempo al sistema capitalistico assicurando in tal modo una lealtà di massa al progetto sociale neoliberista.

All’interno di una società dei consumi che si stava rapidamente sviluppando la politica inflazionistica degli anni Settanta assicurò la pace sociale sostituendosi ad una crescita che non bastava più e provvedendo surrettiziamente al mantenimento della piena occupazione. L’espediente consisteva nel disinnescare il conflitto redistributivo tra Capitale e Lavoro tramite il ricorso a risorse aggiuntive che erano disponibili solo in forma di denaro, ma che non erano, o almeno non erano ancora, reali.

Nella seconda metà degli anni Settanta, con l’inizio della stagflazione, si ruppe l’incantesimo incentrato sulla sostituzione della crescita reale con quella nominale. Sotto la guida degli Stati Uniti e della Federal Reserve venne avviata una drastica stabilizzazione monetaria che portò a un duro scontro e alla sconfitta del movimento sindacale. La deflazione delle economie capitalistiche, favorite da una persistente disoccupazione strutturale e dalle “riforme” di segno neoliberista del mercato del lavoro e del diritto del lavoro si portarono dietro una consistente diminuzione del tasso di sindacalizzazione e delle ore scioperate.

[...]

Parallelamente crebbero esponenzialmente le richieste nei confronti dei sistemi di sicurezza sociale. Questo perché, nonostante l’intero sistema del welfare fosse sotto attacco, il patto implicito che era alla base del contratto sociale corrente non poteva essere smantellato tutto in una volta. Per la seconda volta si fece ricorso al sistema finanziario, non più stampando moneta, ma facendo ricorso al credito privato. Fu l’inizio dell’era dell’indebitamento pubblico. Negli anni Novanta i governi iniziarono a preoccuparsi della porzione dl loro bilancio destinata al servizio del debito mentre i creditori iniziarono a dubitare della solvibilità dei paesi indebitati. Furono di nuovo gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Clinton, a percorrere per primi la strada del risanamento del bilancio attraverso i tagli della spesa sociale. Il consolidamento del bilancio statale minacciava però di produrre una pericolosa flessione della domanda e una perdita di reddito in ambito privato, la risposta fu un’ulteriore iniezione di solvibilità anticipata, realizzata attraverso una seconda ondata di liberalizzazioni dei mercati finanziari che permise un rapido aumento dell’indebitamento privato. E’ quello che Colin Crouch definisce “keynesismo privatizzato”.

Riassumendo: secondo Streeck il tempo guadagnato dal capitalismo a caro prezzo si è manifestato in 3 forme e in 3 fasi successive. In questo senso l’evoluzione compiuta dal paese leader del capitalismo moderno, gli Stati Uniti, assume un valore assolutamente paradigmatico.


continua
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A questo punto l’autore si concentra sulle ripercussioni che questo “tempo guadagnato” ha avuto sulla forma Stato e sul rapporto tra capitalismo e democrazia. La teoria economica mainstream ha sempre spiegato la crisi delle finanze statali a partire dal “fallimento della democrazia” e dall’abuso che questa ne consentirebbe. Secondo la più classica impostazione hayekiana, dal momento che i politici ottengono i loro incarichi attraverso le elezioni, nella lotta per accaparrarsi l’elettorato essi alimenterebbero l’illusione che le risorse sino infinite, consentendo così alla popolazione di “vivere sopra i propri mezzi”. Per superare la crisi fiscale occorrerebbe perciò difendere le finanze pubbliche dalle pretese ingenerate dalla democrazia. Si tratta ovviamente di una lettura assolutamente ideologica che, però, ha da tempo fatto breccia nell’opinione pubblica a dispetto del fatto che l’accumulazione, la riduzione e la ricostituzione del debito pubblico hanno marciato di pari passo con la vittoria del neoliberismo. E con la conseguente de-democraticizzazione dell’economia.
Prova empirica ne sia la pressochè contemporanea esplosione dell’indebitamento statale e della diseguaglianza sociale. Per l’autore la causa del debito pubblico non è dunque da ascrivere alle spese elevate quanto alle basse entrate connesse alla progressiva detassazione delle multinazionali e dei redditi da capitale.

Negli anni Novanta il fenomeno venne amplificato anche da altri fattori. La sempre più rapida internazionalizzazione dell’economia fornì alle grandi imprese l’opportunità fino allora inimmaginabile di spostare la loro responsabilità fiscale in paese meno esigenti. E anche dove alla fine non si realizzò la delocalizzazione della produzione, questo espose gli stati nazionali del capitalismo “democratico” a una crescente concorrenza fiscale spingendo i governi ad abbassare i tetti massimi di imposta alle imprese.

La tesi sostenuta da Streeck è che la crisi dello Stato fiscale, il cui sviluppo aveva accompagnato lo sviluppo capitalistico, segna il passaggio allo “Stato debitore”. Ossia ad uno Stato che per far fronte a gran parte delle sue spese, oltretutto in aumento, prende denaro in prestito dai mercati internazionali piuttosto che attingere alle risorse private attraverso la tassazione. Creando così una montagna di debiti per il cui finanziamento deve spendere una quota crescente delle sue entrate. Con l’apparente paradosso che coloro ai quali la politica fiscale dello Stato ha permesso di formare un surplus di capitali privati possono ora trasformare questi stessi capitali in investimenti redditizi attraverso i prestiti allo Stato stesso. Sempre secondo Streeck la nascita dello Stato debitore può essere considerata sia come un fattore che ritarda la crisi dello stato fiscale, sia come una nuova formazione politica regolata da leggi proprie e che deve rendere conto a due diverse “comunità”: da una parte il “popolo dello stato”, dall’altra il “popolo dei mercati”.

Se dal primo lo Stato debitore pretende lealtà, dal secondo è invece costretto a guadagnare e mantenere la fiducia, pena la cessazione dei finanziamenti. Il conflitto fra questi due popoli, caratterizzati da un potere asimmetrico, da diverse rivendicazioni e dalla competizione per assumere il controllo dello stato stesso è un fenomeno in divenire, praticamente inesplorato, che segna però una fase nuova nel rapporto tra capitalismo e democrazia. Infatti, come ricorda l’autore, la democrazia a livello nazionale presuppone “una sovranità che è sempre di meno nelle disponibilità degli Stati debitori poiché essi dipendono sempre di più dai mercati finanziari”.
Nel perseguire la “fiducia” dei suddetti mercati gli Stati debitori devono inoltre rendere credibile il fatto che si stiano adoperando per mantenersi nelle condizioni di adempiere ai propri obblighi e i migliori risultati in tale direzione si ottengono tramite istituti come il pareggio di bilancio, ancorati nel caso ideale alla Costituzione, così da limitare la sovranità degli elettori e dei governi futuri circa la gestione delle finanze pubbliche. Il popolo del mercato non potrà però stare del tutto tranquillo fino a quando gli elettori avranno ancora la possibilità di sostituire un governo che è al servizio del capitale. La sola presenza di un’opposizione potenzialmente in grado di governare con programmi meno compatibili con quelli del mercato può costare ad uno Stato la fiducia, e quindi l’acceso al denaro. Il migliore Stato debitore è, quindi, uno Stato retto da una grande coalizione.

L’autore però si spinge oltre e come conseguenza della crisi finanziaria esplosa nel 2008 e di quella fiscale indica la trasformazione dello stato debitore in quello che lui definisce lo “Stato consolidato”. Per Streeck la manifestazione più evidente di questa ulteriore evoluzione neoliberista sarebbe da ricercare proprio nel processo di integrazione dell’Unione Europea e nella sua definitiva trasformazione in un meccanismo di liberalizzazione delle economie nazionali europee. Questa trasformazione non sarebbe certo iniziata con la crisi del 2008, al più ne avrebbe ricevuto un’accelerazione, ma sarebbe il risultato e la compiuta realizzazione di un continuo processo di trasformazione che costituisce la versione europea del processo di liberalizzazione in corso a livello mondiale fin dagli anni Ottanta.

“Tale processo di de-democraticizzazione dell’economia, che progredisce rapidamente e parallelamente alla de-economicizzazione della democrazia con lo scopo di raggiungere una egemonia istituzionale della “giustizia di mercato” rispetto alla giustizia sociale può essere descritto come una hayekizzazione del capitalismo europeo”.
Nel percorso di complessiva domesticazione della politica proprio di questa fase di consolidamento rientra il fatto che gli stati debbano assumere su di sé l’onere del risanamento di bilancio nella speranza di essere premiati in un secondo momento da tassi di interesse più bassi, e la via che è stata scelta è stata quella di vincolare tali stati a un regime sovranazionale non democratico chiamato a governarli dall’alto. Lo stato consolidato europeo dell’inizio del ventunesimo secolo non è, per l’appunto, una struttura nazionale, ma una struttura internazionale.
E’ un regime sovranazionale in cui la democrazia è ormai interamente addomesticata dai mercati, un modello statuale fondato sulla definitiva implosione del patto sociale che era stato alla base del capitalismo “democratico “ e che richiede strumenti efficaci per “marginalizzare ideologicamente, disaggregare politicamente e tenere sotto controllo chi non si adegua“.


Contrariamente a quanti ne prevedevano l’estinzione l’utopia neoliberista mantiene dunque il bisogno di uno Stato forte, capace di respingere le richieste di intervento pubblico provenienti dalla società. A detta dell’autore l’alternativa al “capitalismo senza democrazia” dovrebbe essere la proposta di una “democrazia senza capitalismo”, è questa per Streeck l’utopia forte da contrapporre a quella hayekiana, il punto di partenza da cui provare a ricostruire una nuova capacità di azione politica, senza la paura di sporcarsi le mani con quello che le élite europee definiscono con malcelato disprezzo populismo. Perché se un’opposizione costruttiva non è più possibile, al suo posto non rimane che praticare un’opposizione di tipo distruttivo.
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Pierluigi Fagan 14-10-2013
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1.Il “tempo guadagnato” del titolo, è quel quarantennio che va dai primi anni ’70 ad oggi, ma perché “guadagnato” ? Perché secondo l’autore, che è un sociologo tedesco che s’inscrive nella tradizione (sebbene rinnovata e rivisitata) della Scuola di Francoforte e con questo background sviluppa una sua “teoria della crisi”, nei primi trent’anni del dopoguerra nell’Occidente capitalistico, ci si trovò nelle condizioni di poter sviluppare con una certa facilità, molta ricchezza. In condizioni così comode, si realizzò un duraturo e diffuso compromesso tra capitale e democrazia, regolato da politiche economiche e sociali di stampo keynesiano. Poi, ai primi anni ’70, qualcosa (che l’autore non ci spiega) si ruppe nel meccanismo felice del “capitalismo della crescita”. A quel punto si ingenerarono due dinamiche. La prima fu quella per la quale la “classe di coloro che vivono di capitale (proprietari ed amministratori)” mise in revoca le precedenti condizioni di compromesso, cercando di proteggere i diritti del capitale (a scapito delle democrazia). Dall’altra, soprattutto gli stati che ben sanno quanto l’ordine sociale e politico dipenda dalla “classe di coloro che vivono di salario”, cercarono di prolungare artificialmente (l’autore parla significativamente di “droghe”) le comode condizioni precedenti anche in assenza di reali performance concrete dell’economia.

Ne venne fuori un doppio movimento fatto del noto quadrivio neo-lib di deregolamentazione, privatizzazione, finanziarizzazione e globalizzazione da una parte (per la parte della classe del capitale) ed una sequenza ritardante l’impatto tra le aspettative viziate dai – trente glorieuses – e la nuova realtà molto meno “glorieuses”, dall’altra (per la parte della classe del salario). Questa sequenza fu animata da un oceano di denaro scollegato da ogni sottostante economico, oceano che di volta in volta ha preso la forma di inflazione, debito pubblico, debito privato, riacquisto di debito da parte delle banche centrali, lunghi giri di capitale virtuale fluttuante, perennemente in fuga dalla “resa dei conti”. Con il denaro si è comprato tempo, come nella espressione tedesca –Zeit kaufen- o inglese –buying time-, per rinviare la crisi del capitalismo democratico, binomio che avendo una congenita tensione strutturale interna, regge fino a che è immerso in una ricca soluzione di liquidità circolante, scricchiola e tende a spezzarsi quando si riduce questo brodo nutritivo. Questa terapia sostitutiva ha certo allungato il brodo ma in effetto collaterale sono emerse in sequenza tre crisi, quella bancaria, quella finanziaria e da ultima quella che in realtà era la madre di tutte le altre: quella economica.

Questa diluizione dello shock generato dal passaggio repentino da una ipercrescita costante ed una nuova condizione di contrazione strutturale dell’economia occidentale ha allungato il tempo, ma in questo tempo la classe dipendente dal capitale si è mostrata lucida e compatta a difesa della sua condizione, quella dipendente da i salari ha cominciato a pagare a piccole ma costanti rate negative, le nuove condizioni. Lo stato, che in realtà dipende sia da coloro che hanno capitale, sia da coloro che hanno il salario (essendo in teoria la somma di entrambi) ha progressivamente spostato il suo baricentro, dal favore democratico a quello oligarchico. Ne conseguirono limitazione dei sindacati, aumento delle diseguaglianze, persistente disoccupazione strutturale, precarietà, indebitamento pubblico poi da far scontare a chi vive di salario, riduzione e privatizzazione dei servizi sociali. Contrariamente alla vulgata pubblicitaria che vuole questa fase espressa nello slogan “meno stato, più mercato” (falsa poiché il capitale dipende dal proprio stato di riferimento in forme ineliminabili), essa in realtà si palesa come “più mercato, meno democrazia”.
Lucida la tesi di Streeck, poiché evidenzia la dicotomia fondamentale, quella tra sistema economico e sistema politico e non indugia nelle false piste che pure molti ancora percorrono tra un sistema economico A ed un sistema economico B.

2. Per la classe dipendente dal capitale ad un certo punto, era essenziale inibire le facoltà economiche e fiscali dello stato perché ci mancava pure che alle difficoltà oggettive dell’economia si sommassero le velleità redistributive per generare un soffocamento delle stesse condizioni di possibilità su cui quella classe prospera. Spesa ammorbidente la crisi sotterranea con divieto di pari imposizione fiscale ed anzi ampi sgravi alle fasce alte, porta a debito. Ma in seguito il debito pubblico venne trattato alla stregua di un tumore democratico, quella tipica “tragedy of commons” che nasce ogniqualvolta è assente l’individuo proprietario. Streeck è inesorabile a dettagliare in cosa in realtà sono consistite le spese dei bilanci pubblici, i quali comunque (ad eccezione di Italia, Belgio, paesi europei del Nord) hanno fatto il loro grande balzo in avanti solo a partire da dopo la crisi banco-finanziaria recente. Ripianare i fallimenti bancari ad esempio e di contro verificare l’estesa coincidenza statistica in tutto l’Occidente di una redistribuzione verso l’alto dei redditi, con successivo impedimento di tassarli progressivamente, quindi più che alte uscite, basse entrate. Abbassare le tasse agli alti redditi ma anche abbassare i salari ai bassi redditi, direttamente o indirettamente attraverso la contrazione dei servizi. Di contro si verifica ovunque anche la rassegnazione politica poiché le curve di partecipazione al voto, discendono costantemente, altro che ricatto democratico! Si aggiunga: sottrazione fiscale per delocalizzazione ed esportazione capitali (ed off shore), competizione dell’imposizione fiscale al ribasso per via della concorrenza generata dalla libera circolazione dei capitali, finanziamento alla spesa militare in ascesa, spesa sociale per riparare almeno in parte ai disastri della disoccupazione e sottoccupazione generata dalla fase economica così gestita, aumento delle spese per danni ambientali, aumento della spesa per infrastrutture, per la formazione del “capitale umano”, per la ricerca, tutte a favore di quella “religione del cargo” che è l’invocazione alla “crescita”, spese per la cura dei bambini di modo che le madri possano lavorare e sempre più a lungo, etc..

Si è passati così dallo “stato fiscale” allo “stato debitore” e da questo allo “stato consolidato”, stato che è sempre più in precario equilibrio tra il proprio popolo democratico al quale si dovrebbe riferire politicamente e il popolo del mercato al quale invece si deve riferire mostrando buoni fondamentali. La democrazia diventa pubblico intrattenimento svuotata di ogni contenuto politico effettivo poiché l’unica politica consentita è piacere ai mercati che votano comprando o meno il debito accumulato. Ne segue oltre che la perdita sostanziale di sovranità e lo svuotamento sostanziale della democrazia, il rimanere precariamente dentro situazioni schizofrenogene irrazionali (crescere, imponendosi austerità e non tassando) e il porsi in una distorsione delle stesse relazioni internazionali tra stati creditori e debitori, banche ansiose, paura reciproca di default a cui gli europei assommano pure l’irrazionale costruzione monetaria dell’euro.

3.Streeck fa risalire l’ispirazione originaria della definizione di stato di mercato (stato che deve consolidare il debito per uniformarsi al mercato) ad uno scritto del ’39 del padre dell’incubo liberal-mercatistico: F. von Hayek. Il fondamento che animava Hayek era la più totale sfiducia, per non dire repulsione, per la ambizioni di autogoverno politico coltivate dagli uomini. In qualche modo, il liberalismo anglosassone prevede l’utilizzo della politica da parte dell’economia per far sì che si possano creare le migliori condizioni di possibilità per quest’ultima, pensiero magari non esplicito e coperto dai mantra sullo stato minimo e sul mercato massimo. L’ordo-liberalismo tedesco esplicita il ruolo dello stato come aiutante di campo del mercato nella gestione della cosa sociale. Hayek invece non è affatto possibilista, la sua è una posizione radicale, l’uomo non sa e non saprà mai autogovernarsi, men che meno è in grado di intervenire nella grande complessità dei mercati che reggono il funzionamento economico, si faccia allora governare da un regolamento impersonale le cui regole sono chiare, automatiche, imparziali -le regole del mercato- e si astenga tassativamente da ogni costruttivismo tanto politico, quanto economico.

Hayek sostenne anche un ragionamento per un federalismo interstatale ipotetico (poi molto simile a quello che si realizzò prima con l’UE, poi con l’euro) con la messa in primo piano di un “single market” totalmente liberalizzato. La concorrenza degli interessi ex-nazionali, sarebbe stata la garanzia che nessuno di questi si sarebbe potuto affermare. Non sarebbero stati più difendibili in ambito nazionale poiché le governance nazionali sarebbero state svuotate di decisionalità ma non sarebbero stati neanche trasferibili a livello federale proprio perché l’interesse degli uni, si sarebbe scontrato con il disinteresse (o l’interesse contrario) degli altri. Chi avrebbe governato allora i processi? Et voilà: il mercato! Una federazione di eterogenei[1] è la migliore garanzia si venga a creare un sistema che non trova altro modo di autoregolarsi che non ricorrendo ad un regolamento tecnico, appunto, il libero mercato[2].
Tutto quanto detto oggi è realtà, si chiama Unione europea ed Unione monetaria, la sconfitta dello stato e di Keynes, il trionfo della federazione degli eterogenei governati dai mercati e di Hayek. Oggi in Europa, siamo (sono) tutti hayekiani.

La tecnocrazia bruxellese, l’usare i suoi diktat come vincolo esterno obbligato che deposiziona ogni opposizione ed ogni vincolo interno, la conseguente svalutazione della politica e il progressivo allontanamento di massa dalle elezioni, nonché la sua riduzione a spettacolo televisivo, il trionfo di organi decisionali non eletti, patti&trattati l’immodificabili, l’equazione indissolubile Europa=euro basata sul principio di irreversibilità, la costituzionalizzazione di norme limite nella conduzione economica, le procedure di repressione di bilancio ormai giudiziarie ed al riparo dalla contrattazione politica, la genuflessione al volere dei mercati come unico imperativo categorico, l’attacco continuo alla proprietà pubblica, al servizio pubblico, ai servizi sociali, la sostituzione del government con la governance, del diritto democratico col diritto obbligazionario, l’affermarsi ormai totalitario dei codici di efficienza e competitività, la trasformazione dell’umano in capitale, la rassegnazione all’ineguale redistribuzione ormai intro**ttata come “giusta” perché conforme all’etica della nuova religione del merito, le banche private come bene non di tutti ma che tutti debbono salvaguardare per superiori ragioni “sistemiche”, la garanzia non vi possa essere alcuna solidarietà Nord-Sud ovvero che ognuno si tragga dai pasticci con le sue forze, ecco il blueprint del progetto dell’Europa hayekiana. A sigillare il pacchetto, la stentorea affermazione che tanto, non ci sono alternative.
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TEMPO GUADAGNATO. Recensione del libro di W. Streeck | pierluigi fagan | complessita




9.1. I "trenta gloriosi"
 
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Mi permetto di suggerire di evidenziare qualche concetto chiave, per aumentare le probabilità che qualcuno legga. ;)
 
Uhm....

qualunque teoria della storia (e quindi anche della storia economica) richiede una buona dose di ignoranza e altrettanta di malafede.....

voglio dire, alcune idee anche brillanti, uno sfondo opinabile, una visione dinamica tutta da dimostrare (e in genere le cose vanno a finire come nessuno aveva immaginato). Molto hegeliano...
 
Prima avevo inviato recensioni di un libro che contenevano sintesi del testo. Già gli autori delle recensioni presentavano i punti principali del libro dal loro punto di vista.

L' autore del libro ha scritto anche un testo più breve:

Wolfgang Streeck: Alle origini politiche del disastro finanziario
[Le Monde diplomatique, Janvier 2012]
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La crisi del 2008 è iniziata quaranta anni fa Impiegata senza tregua per descrivere l’aggravarsi della situazione economica e finanziaria dal 2008, la nozione di crisi sottintende la de regolazione intempestiva di un sistema perenne. Basterebbe allora correggere gli eccessi per far sì che gli affari riprendano. E se il capitalismo democratico messo in opera nei Paesi occidentali dopo la Seconda guerra mondiale comportasse uno squilibrio insuperabile? Wolfgang Streeck, direttore dell’Istituto Max-Planck per lo studio delle società, Colonia.
Il testo che segue è una versione abbreviata di un’analisi pubblicata sulla New Left Review, n° 71, Londra, settembre-ottobre 2011.


Giorno dopo giorno, gli avvenimenti che segnano la crisi ci insegnano che ormai i mercati dettano la loro legge agli Stati. Falsamente democratici e sovrani, questi ultimi si vedono prescrivere i limiti di ciò che possono fare per i loro cittadini e suggerire quali concessioni devono esigere da questi. Per quanto riguarda le popolazioni s’impone una constatazione: i dirigenti politici non servirebbero gli interessi dei loro concittadini ma quelli di altri Stati o di organizzazioni internazionali – quali il Fondo monetario internazionale (FMI) o l’Unione Europea (UER) – al riparo dalle costrizioni del gioco democratico. Il più sovente questa situazione è descritta come la conseguenza di un inconveniente sullo sfondo della generale stabilità: una crisi.

Ma è veramente questo il caso?
In ogni modo si può leggere la «Grande Recessione» (1) e il quasi-crollo delle finanze pubbliche che ne è risultato come la manifestazione di uno squilibrio fondamentale delle società capitaliste avanzate, strattonate fra le esigenze del mercato e quelle della democrazia. Una tensione che fa delle perturbazioni e dell’instabilità la regola piuttosto che l’eccezione. Allora non si comprenderebbe l’attuale crisi se non alla luce della trasformazione, intrinsecamente conflittuale, di ciò che viene chiamato il «capitalismo democratico».

Dalla fine degli anni ’60 in poi, tre soluzioni sono state successivamente messe in atto per superare la contraddizione fra democrazia politica e capitalismo di mercato.

La prima è stata l’inflazione; la seconda il debito pubblico; la terza il debito privato. A ognuno di questi tentativi corrisponde una particolare configurazione dei rapporti fra i poteri economici, il mondo politico e le forze sociali. Ma questi accomodamenti entrarono in crisi uno dopo l’altro, rendendo precipitoso il passaggio al ciclo seguente. La tempesta finanziaria del 2008 segnerebbe quindi la fine della terza epoca e il probabile avvento di un nuovo assetto, la cui natura resta incerta.


Conflitto di ripartizione

Il capitalismo democratico del dopoguerra ha visto la sua prima crisi a partire dalla fine degli anni ’60, quando l’inflazione cominciava a impennarsi nell’insieme del mondo occidentale. L’ affanno di cui soffriva la crescita economica minacciava improvvisamente la perennità di un modo di pacificazione dei rapporti sociali che aveva messo termine alle lotte del dopoguerra. Nell’essenziale la ricetta adottata fino ad allora era la seguente: la classe operaia accettava l’economia di mercato e la proprietà privata in cambio della democrazia politica, la quale garantiva protezione sociale e miglioramento costante del livello di vita.

Più di due decenni di crescita ininterrotta contribuirono a fissare la convinzione che il progresso socio-economico costituisse un diritto inerente alla cittadinanza democratica. Questa visione del mondo si traduceva in rivendicazioni che i dirigenti si sentivano costretti a onorare: allargamento dello Stato-provvidenza, diritto dei lavoratori a negoziati collettivi liberi, pieno impiego. Altrettante misure sostenute da governi che utilizzavano abbondantemente gli strumenti economici keynesiani.

Ma quando, all’inizio degli anni ’70, la crescita cominciò a flettere, questo compromesso si mise a vacillare – un’instabilità che si manifestò con un’ondata mondiale di protesta sociale. I lavoratori, che ancora la paura della disoccupazione non paralizzava, non intendevano rinunciare a ciò che consideravano come il loro diritto al progresso.
Nel corso degli anni seguenti tutti i governi del mondo occidentale si trovarono di fronte al medesimo problema: come condurre i sindacati a moderare le richieste di aumento dei salari senza dover rimettere in discussione la promessa keynesiana del pieno impiego?

Effettivamente, se in alcuni Paesi la struttura istituzionale del sistema di negoziati collettivi facilitava la firma di «patti sociali» tripartiti, negli altri gli anni ’70 furono segnati dalla convinzione (condivisa nelle più alte sfere dello Stato) che lasciare crescere la disoccupazione per contenere l’aumento dei salari avrebbe significato un suicidio politico, perfino la morte della stessa democrazia capitalista. Per uscire da questo vicolo cieco e conservare allo stesso tempo il pieno impiego e i negoziati collettivi liberi, si profilò una via d’uscita: l’ammorbidimento delle politiche monetarie, fino a lasciare correre l’inflazione.
All’inizio l’aumento dei prezzi non costituiva affatto un problema per i lavoratori: erano rappresentati da sindacati abbastanza potenti per imporre un’indicizzazione di fatto dei salari basata sull’aumento dei prezzi. Al contrario, erodendo i loro patrimoni, l’inflazione arrecava danno ai creditori e ai detentori di attività finanziarie, vale a dire a gruppi che contavano relativamente pochi lavoratori nelle loro file. In queste condizioni si può descrivere l’inflazione come il riflesso monetario di un conflitto di ripartizione: da un lato una classe operaia che reclamava la sicurezza dell’impiego e una parte più importante del reddito nazionale; dall’altra una classe capitalista che si sforzava di massimizzare i redditi da investimenti.

Poiché le due parti si fondano su idee reciprocamente incompatibili circa quello che spetta loro, poiché l’una mette davanti a tutto i diritti dei cittadini e l’altra quelli della proprietà e del mercato, l’inflazione esprime qui l’anomia di una società i cui membri non arrivano a mettersi d’accordo su criteri comuni di giustizia sociale.
Se nell’immediato dopoguerra la crescita economica aveva permesso ai governi di disinnescare gli antagonismi di classe, l’inflazione ormai permetteva loro di preservare il livello dei consumi e la ripartizione dei redditi, attingendo in risorse che l’economia reale non aveva ancora prodotto.
Efficiente, questa strategia di pacificazione dei conflitti non avrebbe tuttavia potuto durare indefinitamente. Essa finì con il suscitare una reazione da parte dei detentori dei capitali, ansiosi di proteggere il loro patrimonio. In definitiva l’inflazione avrebbe condotto alla disoccupazione, punendo i lavoratori dei quali all’origine aveva servito gli interessi. Pungolati dai mercati, i governi abbandonarono gli accordi salariali ridistributivi per ritornare alla disciplina di bilancio.

L’inflazione fu vinta dopo il 1979, quando Paul Volcker, nominato da poco direttore della Riserva Federale americana (FED) dal presidente James Carter, decise un aumento senza precedenti dei tassi d’interesse, che fece salire la disoccupazione a livelli mai visti dopo la Grande Depressione degli anni ’30. Questo «putsch» fu convalidato dalle urne: il presidente Ronald Reagan, che si dice avesse dapprima temuto le ricadute politiche delle misure deflazioniste prese da Volcker, fu rieletto nel 1984.



Garantire la pace sociale

Nel Regno Unito la signora Margaret Thatcher, che aveva seguito le politiche americane, fu anch’ella riportata al suo posto di Primi ministro nel 1983, malgrado l’aumento del numero di chi chiedeva lavoro e la rapida deindustrializzazione causata, fra l’altro, dalla sua politica di austerità monetaria. Nei due Paesi la deflazione fu accompagnata da un attacco in piena regola contro i sindacati.
Nel corso degli anni seguenti l’inflazione rimase circoscritta all’insieme del mondo capitalista, mentre la disoccupazione continuava con un aumento più o meno costante: dal 5% al 9% fra il 1980 e il 1988, in particolare in Francia. Allo stesso tempo il tasso di sindacalizzazione precipitava e gli scioperi divennero tanto rari che alcuni Paesi finirono col non più elencarli.
L’era neoliberista si aprì nel momento in cui gli Stati anglosassoni abbandonarono quello che era stato uno dei pilastri del capitalismo democratico del dopoguerra: l’idea che la disoccupazione avrebbe distrutto il sostegno politico del quale godevano non soltanto i governi in carica, ma anche il sistema di organizzazione sociale stesso. In tutto il mondo i dirigenti politici seguirono con grande attenzione le esperienze portate avanti da Reagan e dalla Thatcher. Tuttavia coloro che avevano sperato che la fine dell’inflazione avrebbe posto un termine ai disordini economici furono smentiti dai fatti. L’inflazione non retrocedette se non per cedere il posto al debito pubblico, che gli anni ’80 videro prendere il volo. E ciò per diverse ragioni.
La stagnazione della crescita aveva reso i contribuenti – in particolare i più prosperi e influenti – molto ostili al prelievo fiscale. E l’arginamento del rialzo dei prezzi mise fine agli aumenti d’imposta automatici (a mano a mano che i redditi crescevano). Questo fu anche la fine della svalutazione continua del debito pubblico tramite l’indebolimento delle monete nazionali, che in un primo tempo aveva completato la crescita economica, per poi sostituirvisi progressivamente, come strumento privilegiato per ridurre l’indebitamento. L’aumento della disoccupazione provocato dalla stabilizzazione monetaria obbligò gli Stati ad accrescere le spese in aiuti sociali. Inoltre l’istituzione dei diritti sociali creati nel corso degli anni ’70 in cambio dell’accettazione da parte dei sindacati della moderazione salariale (una forma di salari differiti) cominciava a sfaldarsi e a pesare sempre più pesantemente sulle finanze pubbliche.
Poiché non era più possibile puntare sull’inflazione per ridurre lo scarto fra le esigenze dei cittadini e quelle dei mercati, spettò alo Stato finanziare la pace sociale.

Durante un certo tempo il debito pubblico costituì un comodo equivalente funzionale dell’inflazione. Effettivamente, proprio come quest’ultima, esso permetteva ai governi di utilizzare risorse che non erano ancora state prodotte, per calmare i conflitti di ripartizione. O, per dirlo altrimenti: di attingere alle risorse future per completare quelle attuali. A mano a mano che la lotta fra le esigenze dei mercati e quelle della società si spostava dal luogo della produzione all’arena politica, le pressioni elettorali si sostituirono alle lotte sindacali. Invece di stampare carta moneta i governi si misero a prendere in prestito a ritmi sempre più elevati. Un processo reso facile dal debole livello dell’inflazione, che rassicurava i creditori sul valore a lungo termine dei titoli di Stato.
Eppure l’accumulazione di debito pubblico non avrebbe potuto, neppure essa, durare in eterno. Da molto tempo gli economisti davano l’allarme alle autorità sul fatto che i deficit pubblici drenavano le risorse disponibili e soffocavano gli investimenti privati, provocando un rialzo dei tassi d’interesse e un rallentamento della crescita. Tuttavia essi non erano in grado di identificarne una soglia critica. In pratica si è rivelato possibile, almeno durante un certo periodo, mantenere i tassi d’interesse relativamente bassi con la deregolamentazione dei mercati finanziari e contenere l’inflazione indebolendo ancor più i sindacati.



Dal debito pubblico al debito privato

Tuttavia gli Stati Uniti, Paese nel quale il livello del risparmio risulta essere eccezionalmente basso, si misero presto a vendere i loro buoni del Tesoro non solamente ai loro propri cittadini, ma anche a investitori esteri, compresi i fondi sovrani. Inoltre, a mano a mano che il peso del debito aumentava, una parte crescente delle spese pubbliche serviva a pagarne gli interessi. E soprattutto doveva ben succedere che a un dato momento, impossibile da determinare in anticipo, i creditori stranieri e nazionali esigessero di recuperare il loro denaro. I «mercati» avrebbero allora messo in moto tutto [il loro peso] per imporre agli Stati la disciplina di bilancio e l’austerità necessarie alla salvaguardia dei loro interessi.
Nel 1992 l’elezione presidenziale americana fu dominata dal problema del doppio deficit: deficit del Governo federale e deficit commerciale dell’intero Paese. La vittoria di William Clinton, che ne aveva fatto l’asse principale della sua campagna elettorale, segnò l’inizio di una serie di sforzi per consolidare il bilancio (2).

Su scala mondiale i consolidamenti di bilancio furono promossi aggressivamente, sotto la guida degli Stati Uniti, da istanze come l’OCSE (Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico) e il FMI (Fondo Monetario Internazionale). In un primo tempo l’amministrazione democratica progettò di ridurre il deficit rilanciando la crescita economica mediante importanti riforme sociali e aumentando le imposte. Nel 1994, tuttavia, i democratici persero la maggioranza al Congresso con le elezioni di metà mandato. Clinton fece voltafaccia e adottò allora una politica di austerità, marcata da importanti riduzioni delle spese pubbliche e da un capovolgimento politico che avrebbe dovuto, secondo le sue parole, mettere termine alla «protezione sociale come noi la conosciamo». Tra il 1998 e il 2000, per la prima volta da decenni, il governo federale americano registrò una eccedenza di bilancio.
L’amministrazione Clinton non era per questo riuscita a pacificare l’economia politica del capitalismo democratico in modo perenne. La sua strategia di gestione dei conflitti sociali consistette in gran parte nell’amplificare la deregolamentazione del settore finanziario, già avviata sotto Reagan. La rapida accentuazione delle ineguaglianze dei redditi, causata dal continuo declino della sindacalizzazione e le forti riduzioni delle spese sociali, come l’abbassamento della domanda aggregata (3) generata dalle politiche di adeguamento del bilancio, furono controbilanciate dalla possibilità per i cittadini e delle imprese d’indebitarsi a livelli senza precedenti.

La felice espressione di «keynesianesimo privatizzato» fece allora la sua apparizione per designare la sostituzione del debito privato con il suo gemello pubblico. Il governo non prendeva più a prestito per finanziare l’eguaglianza all’accesso ad abitazioni decenti o la formazione dei lavoratori: erano ormai gli individui stessi a essere invitati (il più sovente senza averne veramente la possibilità di scelta) a contrattare prestiti a loro rischio e pericolo, per pagare i loro studi o per installarsi in quartieri meno poveri (4).
La politica messa in atto sotto l’amministrazione Clinton rese felice molti. I ricchi pagavano meno imposte e quelli di essi che erano stati abbastanza accorti da investire nel settore finanziario ne ricavarono profitti enormi. Ma i poveri non ebbero tutti da lamentarsi – almeno, non in un primo tempo. I crediti subprime e l’illusoria ricchezza sulla quale essi si basavano si sostituirono alle allocazioni sociali (che venivano soppresse) e agli aumenti di salario (allora inesistenti al livello più basso della scala di un mercato del lavoro già reso flessibile). Per gli afroamericani in particolare l’acquisto di un alloggio non rappresentava unicamente la realizzazione del «sogno americano»: si trattava di un sostituto essenziale alle pensioni che il posto di lavoro, quando ne avevano uno, non assicurava loro e che non avevano alcuna ragione di sperare da parte di un governo votato all’austerità permanente.
Così, a differenza del periodo dominato dal debito pubblico – in cui il prestito di Stato permetteva di utilizzare oggi le risorse di domani – erano ormai gli individui che potevano acquistare immediatamente tutto ciò di cui avevano bisogno, monetizzando il loro impegno a versare una parte significativa dei loro redditi futuri sui mercati.

La liberalizzazione permise dunque di compensare il consolidamento del bilancio e l’austerità pubblica. Il debito privato si aggiunse al debito pubblico e la domanda individuale – formata con grandi iniezioni di dollari dalla fiorente industria del casinò finanziario – prese il posto della domanda collettiva pilotata dallo Stato. Fu quindi essa che sostenne i posti di lavoro e i profitti, specialmente nel settore immobiliare. Questa dinamica ebbe un’accelerazione a partire dal 2001, quando la FED, presieduta da Alan Greenspan, adottò tassi d’interesse molto bassi allo scopo di prevenire una recessione e un ritorno a livelli elevati di disoccupazione. Ma il «keynesianismo privatizzato» non soltanto permise al settore finanziario di liberare profitti senza precedenti: fu anche il pilastro di un boom economico che faceva impallidire di gelosia i sindacati europei. Questi ultimi presero a modello la politica del denaro facile messa in atto da Greenspan, che provocava il rapido indebitamento della società americana. Essi osservavano con entusiasmo che, a differenza della Banca Centrale Europea, la FED americana aveva l’obbligo giuridico non soltanto di assicurare la stabilità monetaria, ma anche di mantenere un alto livello d’occupazione. Tutto questo ebbe sicuramente fine nel 2008, con il crollo improvviso della piramide di crediti internazionali sulla quale si era fondata la prosperità della fine degli anni ’90 e dell’inizio degli anni 2000.
Dopo i periodi successivi dell’inflazione, dei deficit pubblici e dell’indebitamento privato, il capitalismo democratico del dopoguerra è quindi entrato nel suo quarto stadio. Mentre l’insieme del sistema finanziario mondiale minacciava d’implodere, gli Stati-nazione tentarono di restaurare la fiducia economica socializzando i prestiti tossici che prima avevano autorizzato, allo scopo di controbilanciare le loro politiche di consolidamento di bilancio. Combinata al rilancio necessario per prevenire un crollo dell’«economia reale», questa misura causò un’accentuazione spettacolare dei debiti pubblici. Si noterà per inciso che questo sviluppo non derivava dalla natura spendereccia di dirigenti opportunisti o da istituzioni pubbliche mal concepite, come pretendevano alcune teorie concepite nel corso degli anni ’90, sotto gli auspici, specialmente, della Banca Mondiale e del FMI.
Il seguito è noto: dopo il 2008, il conflitto di ripartizione inerente al capitalismo democratico si è trasformato in una lotta accanita fra investitori finanziari mondiali e Stati-nazione sovrani. Mentre per il passato i lavoratori lottavano contro i padroni, i cittadini contro i ministri delle Finanze e i debitori privati contro le banche private, oggi le istituzioni finanziarie incrociano i ferri con gli Stati… che esse hanno tuttavia recentemente sottoposto a un ricatto per ottenere da questi di essere salvate. Rimane da determinare la natura del rapporto di forza sul quale posa questa situazione.
A partire dall’inizio della crisi, per esempio, i mercati finanziari esigono tassi d’interesse molto variabili a seconda degli Stati. Quindi esercitano pressioni differenti sui governi per obbligare i loro cittadini ad accettare tagli di bilancio senza precedenti. Poiché oggi un debito colossale grava sulle spalle degli Stati Uniti, qualsiasi aumento dei tassi d’interesse, fosse anche minimo, è suscettibile di provocare un disastro di bilancio (5).

Allo stesso tempo i mercati devono guardarsi bene dal mettere gli Stati sotto una pressione troppo forte, perché questi ultimi potrebbero pur sempre scegliere di fare fallire il loro debito [ndt.: vedi Islanda]. Occorre perciò che alcuni Stati siano disposti a salvarne altri, più minacciati, in modo da premunirsi contro il rialzo generale dei tassi d’interesse sui debiti sovrani.
Inoltre i mercati non attendono solamente un consolidamento del bilancio: esigono ugualmente prospettive ragionevoli di crescita economica. Ma come combinare le due cose? Il premio di rischio sul debito irlandese, nonostante fosse diminuito quando il Paese si è impegnato a prendere misure drastiche di riduzione del suo deficit, è risalito qualche settimana più tardi: il piano di risanamento era tanto rigido da impedire qualsiasi ripresa economica (6).


Lo scacco della regolamentazione

Da qualche anno l’amministrazione politica del capitalismo democratico si rivela sempre più delicata. D’altronde è probabile che, dopo la Grande Depressione, i dirigenti politici non si siano mai confrontati con un’incertezza tanto grande.
È del tutto inimmaginabile, d’altro canto, che una nuova bolla [speculativa] già si gonfi, pregna del denaro a buon mercato che continua a colare a fiotti? Se non è più possibile investire nei subprime, almeno per il momento, il mercato delle materie prime o la nuova economia di Internet offrono ad alcuni prospettive allettanti.
Nulla impedisce alle società finanziarie d’investire le liquidità, con cui le Banche centrali le abbeverano, in quello che esse giudicano essere il «nuovo settore di crescita» – a nome dei loro clienti privilegiati e, perché no, per il loro proprio profitto. Dopo tutto, poiché le riforme che avrebbero dovuto regolare il settore finanziario sono quasi totalmente fallite, il capitale può mostrarsi oggi un po’ più esigente di prima. E le banche, già descritte nel 2008 come troppo grandi per fallire («too big to fail»), possono sperare di esserlo ancora nel 2012 o nel 2013. Potranno quindi mettere in atto il ricatto che seppero giocarsi tanto abilmente tre anni fa. Ma questa volta il salvataggio pubblico del capitalismo privato potrebbe rivelarsi impossibile, anche soltanto per il fatto che le finanze pubbliche hanno raggiunto il limite delle loro capacità.

Nella crisi attuale il rischio per la democrazia si rivela tanto grande quanto quello che pesa sull’economia, se non maggiore. Non soltanto l’«integrazione sistemica» delle società contemporanee – vale a dire il funzionamento efficiente dell’economia capitalista – trema sulle sue basi, ma accade lo stesso alla loro «integrazione sociale» (7).
L’avvento di una nuova era d’austerità ha gravemente afflitto la capacità degli Stati di trovare un equilibrio fra i diritti dei cittadini e le esigenze di accumulo dei capitali inoltre, la ristrettezza dei rapporti d’interdipendenza che i Paesi mantengono fra loro rende illusoria la soluzione delle tensioni fra economia e società (o capitalismo e democrazia). Nessun governo può più permettersi d’ignorare le costrizioni e gli obblighi internazionali, in particolare quelli dei mercati finanziari. Le crisi e le contraddizioni del capitalismo democratico si sono a poco a poco internazionalizzate e si svolgono non soltanto in **** agli Stati, ma fra loro, secondo combinazioni e permutazioni che restano da esplorare.
Quando si osserva lo svolgersi della crisi dopo gli anni ’70 sembra verosimile che il capitalismo democratico trovi uno strumento nuovo – benché temporaneo, anch’esso – per risolvere i conflitti sociali. Ma stavolta con modalità che dovrebbero andare interamente a vantaggio delle classi possidenti, trincerate in una piazzaforte politicamente imprendibile: l’industria della finanza internazionale. Dopotutto si può escludere che queste [classi benestanti] immaginino con fiducia il risultato del combattimento estremo, che potrebbero decidere di provocare contro il potere politico, senza imporre prima la loro legge, una volta per tutte?

NOTE
...
Habermas e Streeck: Dibattito su democrazia e capitalismo - Inchiesta : Inchiesta
 
Jürgen Habermas aveva risposto ad alcune tesi di Streeck

Jürgen Habermas : Democrazia o capitalismo
[La Repubblica, 4 settembre 2013]

Questo saggio pubblicato su La La Repubblica anticipa una parte di un saggio di Jürgen Habermas che appare in versione integrale su Reset.it e rappresenta l’aprirsi di una Europa Streit, di una polemica sull’Unione europea. Il filosofo tedesco accusa la sinistra di essersi fermata su posizioni “nostalgiche” e di ripetere l’errore nazionalista dell’inizio del XX secolo, che aprì la strada alla Prima guerra mondiale. L’attacco di Habermas prende di mira un libro del sociologo Wolfgang Streeck, Gekaufte Zeit, (Tempo comprato), Suhrkamp. Questi ha sostenuto, in una conferenza l’anno scorso e quest’anno nel libro, che l’Unione europea s’identifica oggi come l’epicentro del radicalismo neoliberale e che gli euro-idealisti di sinistra sono caduti vittime di un abbaglio, dando via libera alla costruzione di un edificio mostruoso. Queste tesi per Habermas riflettono un errore che nasce dalla timidezza della sinistra nei confronti delle tendenze populiste della destra e del centro. A chi lamenta l’assenza sulla scena pubblica tedesca di un dibattito aperto sull’Europa, Die Zeit fa notare in questi giorni che è assente solo dalle grandi tribune pubbliche di Stato e di partito. Su riviste e giornali la discussione divampa e non c’è dubbio che avrà un seguito.

Nella comunità monetaria europea è possibile osservare come i mercati limitino in forma perversa la capacità d’iniziativa politica degli Stati. Qui la trasformazione della Stato fiscale in Stato debitore costituisce lo sfondo del circolo vizioso tra il salvataggio di banche decotte da parte degli Stati i quali a loro volta sono spinti alla rovina da quelle stesse banche, con il risultato che il regime finanziario dominante mette sotto curatela le proprie popolazioni. Che cosa ciò significhi per la democrazia lo abbiamo potuto osservare al microscopio in quella notte del vertice di Cannes quando il premier greco Papandreu, fra le pacche sulle spalle date dai suoi colleghi, fu costretto a ritirare un referendum che aveva appena annunciato. Wolfgang Streeck ha il merito di aver dimostrato che la “politica dello Stato debitore”, che il Consiglio europeo porta avanti dal 2008 su pressione del governo tedesco, nella sostanza continua a seguire il modello politico favorevole al capitale che ha condotto alla crisi.

Wolfgang Streeck non propone di completare la costruzione europea, bensì di smontarla; vuole tornare nelle fortezze nazionali degli anni Sessanta e Settanta, al fine di «difendere e riparare per quanto possibile i resti di quelle istituzioni politiche grazie alle quali forse si potrebbe modificare e sostituire la giustizia del mercato con la giustizia sociale». Questa opzione di nostalgica chiusura a riccio nella sovrana impotenza di nazioni ormai travolte è sorprendente, se si considerano le trasformazioni epocali degli Stati nazionali che prima avevano i mercati territoriali ancora sotto controllo e oggi invece sono ridotti al ruolo di attori depotenziati inseriti a loro volta nei mercati globalizzati.(…)

Evidentemente la capacità di intervento politico di Stati nazionali vigili custodi di una sovranità ormai da tempo svuotata non è sufficiente per sottrarsi agli imperativi di un settore bancario ipertrofico e disfunzionale. Gli Stati che non si associano in unità sopranazionali e dispongono solo dello strumento dei trattati internazionali falliscono di fronte alla sfida politica di rimettere questo settore in sintonia con i bisogni dell’economia reale e di ricondurlo a dimensioni funzionali adeguate. In particolare sono gli Stati della comunità monetaria europea a vedersi sfidati dal compito di ricondurre mercati irreversibilmente globalizzati nel raggio d’azione di un intervento politico indiretto ma mirato. Nei fatti la loro politica anticrisi si limita al rafforzamento di una esperto-crazia per misure che rinviano i problemi. Senza la spinta di una vitale formazione della volontà da parte di una società di cittadini mobilitabile al di là dei confini nazionali, all’esecutivo di Bruxelles resosi ormai autoreferenziale manca la forza e l’interesse a regolare in forme socialmente sostenibili mercati ormai abbandonati ai loro spiriti animali.

Wolfgang Streeck condivide l’assunto che la sostanza egalitaria dello Stato di diritto democratico sia realizzabile solo sulla base dell’appartenenza nazionale, e quindi solo entro i confini territoriali di uno Stato nazionle, perché altrimenti sarebbe inevitabile la marginalizzazione delle culture minoritarie. Anche prescindendo dall’ampia discussione sui diritti culturali, questo assunto, considerato da una prospettiva di lungo termine, è arbitrario. Già gli Stati nazionali si basano sulla forma altamente artificiale di una solidarietà tra estranei generata dal costrutto giuridico dello status di cittadino. Anche in società omogenee sul piano etnico e linguistico la coscienza nazionale non ha nulla di naturale. È piuttosto un prodotto, valorizzato sul piano amministrativo, della storiografia, della stampa e del serviziodi leva. (…)

Wolfgang Streeck teme i tratti giacobini di una democrazia sovranazionale poiché questa, sulla via di una permanente marginalizzazione delle minoranze, non potrebbe che condurre a un livellamento delle comunità economiche e identitarie basate sulla vicinanza spaziale. In tal modo, però, egli sottovaluta la fantasia innovatrice e creatrice di diritto che si è già manifestata nelle attuali istituzioni e nelle regole vigenti. Penso all’ingegnosa procedura decisionale della “doppia maggioranza” o alla composizione ponderata del parlamento europeo, che proprio in vista di un’equa rappresentazione tiene conto delle forti differenze numeriche tra le popolazioni dei paesi piùmpiccoli e dei più grandi.(…)

Lo Stato federale è il modello sbagliato. Infatti le condizioni di legittimazione democratica possono essere soddisfatte anche da una comunità democratica sovranazionale ma sovrastatale che consenta un governo comune. In essa tutte le decisioni politiche sarebbero legittimate dai cittadini nel loro doppio ruolo di cittadini europei e di cittadini dei vari Stati membri. In una siffatta unione politica, chiaramente distinta da un “superstato”, gli Stati membri, in quanto garanti del livello da essi rappresentato di diritti e di libertà, conserverebbero un ruolo molto importante se paragonati alle articolazioni subnazionali di uno Stato federale.

Il blocco può essere forzato se i partiti europeisti si trovano insieme al di là dei confini nazionali per lanciare campagne contro questa falsa trasposizione di problemi sociali in problemi nazionali. La tesi che «nell’Europa occidentale di oggi il nazionalismo non è più il maggior pericolo, e meno che mai quello tedesco » la considero politicamente una stoltezza. Che in tutte le nostre sfere pubbliche nazionali manchino scontri di opinione su alternative politiche poste correttamente posso spiegarmelo solo con i timori dei partiti democratici nei confronti dei potenziali politici di destra. Le controversie polarizzanti sulla politica dell’Europa possono essere chiarificatrici piuttosto che sobillatrici solo se tutte le parti in causa ammettono che non ci sono alternative prive di rischi e nemmeno alternative gratuite. Invece di aprire falsi fronti lungo i confini nazionali sarebbe compito di questi partiti distinguere perdenti e vincenti della crisi per gruppi sociali che, indipendentemente dalla loro nazionalità, risultano di volta in volta più o meno colpiti.

I partiti europei di sinistra sono in procinto di ripetere i loro errori storici del 1914. Anche oggi essi indietreggiano per paura della propensione al populismo di destra presente nel centro della società. Poi in Germania un panorama mediatico incredibilmente succube alla Merkel incoraggia tutte le parti in causa a non toccare in campagna elettorale i fili elettrici della politica europea, e a stare al suo gioco furbesco della non tematizzazione. Per questo c’è da augurarsi che “Alternative für Deutschland”(il nuovo partito liberale ed euroscettico, ndr.) abbia successo. Spero che essa riesca a costringere gli altri partiti a spogliarsi della tuta mimetica che rende invisibile la loro politica europea. Così dopo le elezioni politiche tedesche si potrebbe profilare, per il prossimo necessario primo passo, una “grandissima” coalizione. Infatti, per come stanno le cose, solo la Germania può assumersi l’iniziativa di un’impresa tanto difficile.

(Traduzione di Walter Privitera)

Habermas e Streeck: Dibattito su democrazia e capitalismo - Inchiesta : Inchiesta
 
Be complimenti, la descrizione del progetto neoliberista e del popolo dei mercati in conflitto col popolo degli stati, e cioè i cittadini, mi sembra impeccabile...certo sarebbe interessante sapere perché a metà degli anni 70 il capitalismo decide di imboccare la via neoliberista abbandonando la fase di crescita e benessere per tutti del dopoguerra..tale fase comunque conosce una accelerazione col crollo del comunismo sovietico nel 1989, e infatti mastricht è del 1992, ma è innegabile che inizia molto prima, da noi ad esempio col divorzio famoso del 1981.
Le conclusioni sono disarmanti...i mercati finanziari non vogliono la democrazia, o meglio, vogliono una grande coalizione ...le sovranità degli Stati che per finanziarsi si rivolgono ai mercati finanziari privati sono sempre più minacciate dagli stessi...per quanto ci riguarda noi italiani, senza una banca centrale che ci protegga, siamo come dei fuscelli al vento. Ottima analisi..finalmente su macro si dice la verità sui processi in atto. OK!👌👍
 
..ma sono io che volgarizzo cotanto sapere eppure io vedo perfettamente descritto il rovesciamento di Berlusconi..
 
Era stato un fenomeno più ampio che aveva coinvolto parecchi governi che avevano dovuto attuare politiche tali da convincere gli investitori sul mercato ad acquistare titoli di stato e non vendere massicciamente quelli posseduti.
Nel luglio 2011 Tremonti aveva presentato una manovra che prevedeva bolli a scaglioni sui depositi titoli e qualche altra misura fiscale per incrementare le entrate.
Dopo la rottura con Fini e la formazione di Fli il governo Berlusconi aveva una maggioranza risicata e traballante

Silvio perde la maggioranza - Lettera43.it


Pdl, e rottura tra Fini e Berlusconi Il premier: "Se non si allinea e fuori" - Repubblica.it

Berlusconi vince per tre voti e va al Colle Poi da Vespa: «Con Fli trattative chiuse»

Streeck aveva anche evidenziato qualche problema dell'Italia:

January-February 2012
...
Since the 1990s, however, with capitalist development of the South still remote and money from Brussels having to be shared with Eastern Europe, a growing fraction of the northern Italian electorate has become increasingly secessionist. For a while, as in Greece, the cheap credit instantly available after entry into the monetary union helped the central government to sedate the Mezzogiorno without having to tax the North. But these loans are no longer available. No one today expects an economic upswing in southern Italy, whether of its own making or through some EU magic. The malaise under Berlusconi was due not only to his peculiar use of his spare time, but also to the fact that no one could answer the question of how Italy should safeguard its national unity in face of the gaping inequalities between a rich North and a stagnant South, which seem insurmountable without deep social upheaval.
...

Wolfgang Streeck: Markets and Peoples. New Left Review 73, January-February 2012.
 
Be complimenti, la descrizione del progetto neoliberista e del popolo dei mercati in conflitto col popolo degli stati, e cioè i cittadini, mi sembra impeccabile...certo sarebbe interessante sapere perché a metà degli anni 70 il capitalismo decide di imboccare la via neoliberista abbandonando la fase di crescita e benessere per tutti del dopoguerra..tale fase comunque conosce una accelerazione col crollo del comunismo sovietico nel 1989, e infatti mastricht è del 1992, ma è innegabile che inizia molto prima, da noi ad esempio col divorzio famoso del 1981.
Le conclusioni sono disarmanti...i mercati finanziari non vogliono la democrazia, o meglio, vogliono una grande coalizione ...le sovranità degli Stati che per finanziarsi si rivolgono ai mercati finanziari privati sono sempre più minacciate dagli stessi...per quanto ci riguarda noi italiani, senza una banca centrale che ci protegga, siamo come dei fuscelli al vento. Ottima analisi..finalmente su macro si dice la verità sui processi in atto. OK!👌👍

condivido !
ottima analisi quella riportata, finalmente si legge su quest'area tematica un'analisi seria e non più le solite uscite propagandistiche dei c.d. libberisti contro lo statalismo e la società dei magnaccioni.

ti poni la domanda seguente:
"sarebbe interessante sapere perché a metà degli anni 70 il capitalismo decide di imboccare la via neoliberista abbandonando la fase di crescita e benessere per tutti del dopoguerra"

Io una mia risposta ce l'avrei.
Secondo me il capitalismo ha una contraddizione insanabile nel suo sistema organizzativo della produzione: si basa sul profitto, più cresce questo e più cresce l'economia e viceversa.
Il profitto si basa sul processo di valorizzazione che altri non è che l 'appropriazione del lavoro altrui, del lavoro salariato.Contestualmente il progresso consiste nelle sostituzione del lavoro salariato con le macchine(il famoso aumento della composizione organica del capitale C+V) e di conseguenza ciò porta a una naturale contrazione nei profitti perchè si riduce la qtà di lavoro salariato presente nel processo produttivo che è l'unica massa sfruttabile.Il tutto sintetizzato nella nota formula della caduta del saggio tendenziale medio del profitto = PV/C+V.
Quanto sopra spiega perchè il capitalismo cerca sistematicamente di attenuare gli effetti di questa caduta con rimedi che aumentano lo sfruttamento del lavoro(PV).

A seconda delle metodologie preponderanti adottate in un certo periodo avremo varie fasi nel capitalismo.
E quando queste metodologie vanno nel corso del loro utilizzo a naturale consunzione tendono a essere abbandonate e sostituite.
Negli anni del dopoguerra sino a fine anni 70 si sè adottata la strategia del welfare e delle sicurezze sociali per i salariati però pagate con soldi finti,ovvero con un inflazione che è andata vieppiù crescendo sino a consunzione finale
e qui rispondo alla tua domanda del perchè a fine anni 70 si è terminato con il periodo aureo e si è determinata la svolta neoliberista.
Svolta neoliberista che però non lo dimentichiamo,e negli scritti di cui sopra è stato chiarito,non è stata una vera e propria svolta neoliberista ma solo una trasformazione di quei soldi finti di cui sopra in una grossa qtà di debiti circolanti grazie a una deregulation sfrenata in campo finanziario al punto che in questo caso si è parlato non di superamento del keynesismo,ma di sostituzione di esso con un altra forma di keynesismo di tipo privato.

Il 2008 ha dimostrato che è in crisi anche quest'ultima metodologia preponderante oggi e vedremo così nascere(almeno io lo spero) una successiva futura fase,che io,qui,ho più volte indicato come il formarsi di un nuovo keynesismo in cui la spesa pubblica anticiclica e terapeutica generata dallo stato per contenere le crisi sia finalmente produttiva,smetta di essere socialmente inutile e ambientalmente distruttiva e tenti di salvaguardare il più possibile il mercato e la concorrenza privata.Diversamente staremo a vedere di che trattasi.
 
Ultima modifica:
differenza keynes/marx

continuando il post di cui sopra preciso una mia idea sulla differenza tra i due,che va colta nel senso che marx definisce le crisi del capitalismo come strutturali al capitalismo stesso e quindi come un qualcosa a cui si può anche tentare di porre un rimedio ma questo risulta ahimè sempre transitorio.

Keynes invece carpisce perfettamente una contraddizione del capitalismo che già Marx aveva evidenziato come conflitto tra la tendenza alla riproduzione semplice e tendenza alla riproduzione allargata,per cui il salario è componente del costo e quindi freno al profitto ma anche sua sorgente in termini di domanda e consumi e quindi parte della domanda aggregata,e ritiene la intermediazione dello stato tramite la spesa pubblica,che è l'altra parte della domanda aggregata a compensazione,come un rimedio definitivo.

Keynes poi non analizza e non considera la caduta del saggio medio di profitto che per marx è la madre di tutte le contraddizioni del capitalismo.

In definitiva MARX non crede che il capitalismo sia una forma di rapporti di produzione che possa durare in eterno e prima o poi dovrà lasciare spazio ad una radicale alternativa mentre keynes ritiene il capitalismo riformabile,per cui se si prendono in esso i giusti provvedimenti per contenere le sue criticità esso può persistere.
 
Ultima modifica:
tutto può durare IN ETERNO se nessuno ha nulla da obiettare . Tutte le stron-zate del capitalismo passano come acqua fresca sui giovani (quelli che dovrebbero ribellarsi) quindi le contraddizioni del capitalismo non daranno luogo a nulla. TEMO.
Un poco alla volta ci faranno accettare tutto, tanto c'è qualcuno da qualche altra parte del mondo disposto ad accettare quel tutto. E quando non ci sarà più nessuno disposto ad accettare ci saranno i robot (che già ci sono)
 
tutto può durare IN ETERNO se nessuno ha nulla da obiettare . Tutte le stron-zate del capitalismo passano come acqua fresca sui giovani (quelli che dovrebbero ribellarsi) quindi le contraddizioni del capitalismo non daranno luogo a nulla. TEMO.
Un poco alla volta ci faranno accettare tutto, tanto c'è qualcuno da qualche altra parte del mondo disposto ad accettare quel tutto. E quando non ci sarà più nessuno disposto ad accettare ci saranno i robot (che già ci sono)

tu dici
tutto può durare IN ETERNO se nessuno ha nulla da obiettare

ma nessuno ha mai parlato di una fine del capitalismo generata dalla volontà trasformatrice delle persone e basta.
Qui si parla di un sistema di produzione con un relativo intreccio di rapporti sociali che potrebbe non essere più in grado di garantire al suo interno
lo sviluppo delle forza produttive che esso stesso evoca.
Ed è scientificamente e storicamente provato che tutti i sistemi di produzione cessano allorquando non sono più idonei a garantire lo sviluppo delle forze produttive e
questo avviene solo quando questi sistemi di produzione inidonei hanno esaurito tutte le proprie potenzialità.
Fintantochè non succede ciò si può assistere solo a finti cambiamenti che non sono altro che aggiustamenti temporanei interni,come quelli a cui si è accennato nei post precedenti parlando delle
c.d. varie fasi nel capitalismo.
Oggi per me,per es., ci sono già i germi di una nuova fase nel capitalismo e staremo a vedere di che trattasi

E infine,e poi concludo, il cambiamento dei rapporti di produzione è sempre qualcosa di assai complesso e lungo,appunto storico,che non può esser confuso con le sporadiche rivolte
spesso a base di violenza spicciola e stradaiola,che oddio possono anche essere parte di un più storico e complesso fenomeno,ma che non potrà mai esaurirlo però,se non banalizzando.
 
tu dici
tutto può durare IN ETERNO se nessuno ha nulla da obiettare

ma nessuno ha mai parlato di una fine del capitalismo generata dalla volontà trasformatrice delle persone e basta.
Qui si parla di un sistema di produzione con un relativo intreccio di rapporti sociali che potrebbe non essere più in grado di garantire al suo interno
lo sviluppo delle forza produttive che esso stesso evoca.
Ed è scientificamente e storicamente provato che tutti i sistemi di produzione cessano allorquando non sono più idonei a garantire lo sviluppo delle forze produttive e
questo avviene solo quando questi sistemi di produzione inidonei hanno esaurito tutte le proprie potenzialità.
Fintantochè non succede ciò si può assistere solo a finti cambiamenti che non sono altro che aggiustamenti temporanei interni,come quelli a cui si è accennato nei post precedenti parlando delle
c.d. varie fasi nel capitalismo.
Oggi per me,per es., ci sono già i germi di una nuova fase nel capitalismo e staremo a vedere di che trattasi

E infine,e poi concludo, il cambiamento dei rapporti di produzione è sempre qualcosa di assai complesso e lungo,appunto storico,che non può esser confuso con le sporadiche rivolte
spesso a base di violenza spicciola e stradaiola,che oddio possono anche essere parte di un più storico e complesso fenomeno,ma che non potrà mai esaurirlo però,se non banalizzando.

purtroppo per capire sino a quando questo sistema può resistere occorrerebbe CONOSCERE QUANTA RICCHEZZA DEVE PRODURRE L'ITALIA PER SOPRAVVIVERE DECENTEMENTE. E chi sa quanto basterebbe ? Abbiamo perso il 25% del tessuto industriale eppure siamo ancora a galla. Anche CONTRO la nostra volontà c'è richiesta di made in italy ..potrebbe essere sufficiente a galleggiare.
 
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