HollyFabius
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Abbiamo, in altro 3D, citato la necessità e l'originalità come criteri per valutare (di fatto) le potenzialità di un artista.
Tralasciando il fattore mercato, ovviamente importante per il successo ma non per la propensione all'arte dell'uomo, il termometro che può indicare un livello di ricerca valida e con la potenzialità di lasciare una traccia ai posteri è basato su questi due concetti semplici da capire ma complicati da definire con concordia.
Sulla originalità penso che si possa facilmente comprendere e condividere il fatto che l'interesse di una ricerca artistica nasce là dove oltrepassa i limiti del già percorso (se ne è parlato spesso qui nel forum).
Legati alla comprensione e riconoscimento della originalità vi sono le posizioni di molti che ricordano come sia necessario studiare la storia dell'arte per conoscere e riconoscere la cifra stilistica originale, per comprendere il valore intrinseco di un autore.
Non voglio qui però parlare di questo (che condivido), di cui abbiamo parlato spesso, e di cui si trovano interventi qui nel forum sin dalla sua nascita, anche se in realtà vorrei poi in seguito ragionare sulla generale confusione di come il processo di riconoscenza della particolare cifra stilistica venga spesso sostituito dalla sola ricerca di tracce storiche.
Qui vorrei invece porre l'attenzione al concetto di necessità dell'uomo artista nel suo fare arte. In particolare mi piacerebbe discutere e sentire le vostre opinioni sulle cause di questa necessità.
Insomma cosa spinge un uomo verso la necessità di fare arte?
La spinta interiore nasce sempre da cause imperscrutabili, da incomprensibili fattori endogeni?
Nell'analisi fenomenica, non del fattore artistico in sé, non nel prodotto dell'arte ma nella causa di questo fattore si possono elencare e analizzare perlomeno alcuni fattori razionali comprensibili.
Personalmente, e ne ho parlato in passato, penso che si possa supporre una differente sensibilità dell'uomo artista alla realtà circostante.
Comprendo una prima obiezione legata alle potenzialità dell'arte contemporanea di natura puramente concettuale e quindi 'esente' da un ragionamento basato sui sensi (sulla sensibilità in senso stretto).
Io però mi riferisco ad una sensibilità più ampia che coinvolge l'attività intellettuale del singolo, considerando questa un senso che si sviluppa e si trasforma nel tempo e nel passaggio delle generazioni. Propendo insomma per una teoria evolutiva darwiniana con una spruzzata di lamarckismo.
Dopo questa sintetica (e quindi forse tortuosa) premessa arrivo al punto della questione di cui volevo parlare.
Può (e in che misura incide) un'alterazione fisica sensibile essere causa (o una componente che determina la tipologia di causa) della necessità di fare arte?
Il caso eclatante è ovviamente quello di Van Gogh, cui si ritiene la predilezione per il giallo dovuta ad un eccesso all'abuso di un liquore tossico.
L'assenzio era la droga per eccellenza di molti pittori impressionisti.
Scrive Giuseppe De Rosa
"Secondo uno studio recente del neurologo australiano prof. Noel Dan, alcuni dei grandi capolavori impressionisti potrebbero essere stati tecnicamente influenzati dalla miopia avanzata di maestri quali Monet, Cezanne e Renoir. Il difetto visivo li avrebbe costretti ad osservare la realtà in modo confuso e a focalizzare meglio i colori più accesi, quali il rosso e il giallo. Per cui la straordinaria invenzione stilistica dell'impressionismo, la sua velata rappresentazione degli oggetti, la predominanza dei colori più vivaci verrebbero spiegate dalla miopia e dal testardo rifiuto di alcuni pittori a portare gli occhiali. Fra questi Pierre-Auguste Renoir che dal 1898 fu anche colpito da un'artrite deformante che lo costrinse a dipingere col pennello legato alla mano fino alla morte, avvenuta nel 1919."
Ma esistono casi di alterazione dei sensi non dovuta a droghe ma congenite, per esempio penso alle varie forme di daltonismo, oppure alla sinestesia.
Possono differenze nella vista o negli altri organi di senso porre l'uomo nella condizione di dover esprimere una propria idea della realtà (istintivamente diversa)?
E' evidente che le differenze incidono sulla forma espressiva, ma possono incidere anche nella forma di necessità?
La voglia di affermazione, di farsi ascoltare possono dipendere e in che misura dalle differenze congenite?
Tralasciando il fattore mercato, ovviamente importante per il successo ma non per la propensione all'arte dell'uomo, il termometro che può indicare un livello di ricerca valida e con la potenzialità di lasciare una traccia ai posteri è basato su questi due concetti semplici da capire ma complicati da definire con concordia.
Sulla originalità penso che si possa facilmente comprendere e condividere il fatto che l'interesse di una ricerca artistica nasce là dove oltrepassa i limiti del già percorso (se ne è parlato spesso qui nel forum).
Legati alla comprensione e riconoscimento della originalità vi sono le posizioni di molti che ricordano come sia necessario studiare la storia dell'arte per conoscere e riconoscere la cifra stilistica originale, per comprendere il valore intrinseco di un autore.
Non voglio qui però parlare di questo (che condivido), di cui abbiamo parlato spesso, e di cui si trovano interventi qui nel forum sin dalla sua nascita, anche se in realtà vorrei poi in seguito ragionare sulla generale confusione di come il processo di riconoscenza della particolare cifra stilistica venga spesso sostituito dalla sola ricerca di tracce storiche.
Qui vorrei invece porre l'attenzione al concetto di necessità dell'uomo artista nel suo fare arte. In particolare mi piacerebbe discutere e sentire le vostre opinioni sulle cause di questa necessità.
Insomma cosa spinge un uomo verso la necessità di fare arte?
La spinta interiore nasce sempre da cause imperscrutabili, da incomprensibili fattori endogeni?
Nell'analisi fenomenica, non del fattore artistico in sé, non nel prodotto dell'arte ma nella causa di questo fattore si possono elencare e analizzare perlomeno alcuni fattori razionali comprensibili.
Personalmente, e ne ho parlato in passato, penso che si possa supporre una differente sensibilità dell'uomo artista alla realtà circostante.
Comprendo una prima obiezione legata alle potenzialità dell'arte contemporanea di natura puramente concettuale e quindi 'esente' da un ragionamento basato sui sensi (sulla sensibilità in senso stretto).
Io però mi riferisco ad una sensibilità più ampia che coinvolge l'attività intellettuale del singolo, considerando questa un senso che si sviluppa e si trasforma nel tempo e nel passaggio delle generazioni. Propendo insomma per una teoria evolutiva darwiniana con una spruzzata di lamarckismo.
Dopo questa sintetica (e quindi forse tortuosa) premessa arrivo al punto della questione di cui volevo parlare.
Può (e in che misura incide) un'alterazione fisica sensibile essere causa (o una componente che determina la tipologia di causa) della necessità di fare arte?
Il caso eclatante è ovviamente quello di Van Gogh, cui si ritiene la predilezione per il giallo dovuta ad un eccesso all'abuso di un liquore tossico.
L'assenzio era la droga per eccellenza di molti pittori impressionisti.
Scrive Giuseppe De Rosa
"Secondo uno studio recente del neurologo australiano prof. Noel Dan, alcuni dei grandi capolavori impressionisti potrebbero essere stati tecnicamente influenzati dalla miopia avanzata di maestri quali Monet, Cezanne e Renoir. Il difetto visivo li avrebbe costretti ad osservare la realtà in modo confuso e a focalizzare meglio i colori più accesi, quali il rosso e il giallo. Per cui la straordinaria invenzione stilistica dell'impressionismo, la sua velata rappresentazione degli oggetti, la predominanza dei colori più vivaci verrebbero spiegate dalla miopia e dal testardo rifiuto di alcuni pittori a portare gli occhiali. Fra questi Pierre-Auguste Renoir che dal 1898 fu anche colpito da un'artrite deformante che lo costrinse a dipingere col pennello legato alla mano fino alla morte, avvenuta nel 1919."
Ma esistono casi di alterazione dei sensi non dovuta a droghe ma congenite, per esempio penso alle varie forme di daltonismo, oppure alla sinestesia.
Possono differenze nella vista o negli altri organi di senso porre l'uomo nella condizione di dover esprimere una propria idea della realtà (istintivamente diversa)?
E' evidente che le differenze incidono sulla forma espressiva, ma possono incidere anche nella forma di necessità?
La voglia di affermazione, di farsi ascoltare possono dipendere e in che misura dalle differenze congenite?
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