Alessandro Celli
Nuovo Utente
- Registrato
- 23/10/09
- Messaggi
- 34.348
- Punti reazioni
- 865
Fabio Mauri.
(tanto per uscire dalla solita noia)
Exhibitions — I was not new — Hauser & Wirth
“E’ difficile non ricordare alla notizia della scomparsa a 83 anni di Fabio Mauri (era malato da tempo), l’emozione, vissuta nel ‘93 alla Biennale di fronte al suo magnifico ed indimenticabile Muro Occidentale o del Pianto, una parete allampanata e crollante di valigie usurate d’emigranti, impregnate dall’unto colloso della disperazione ed abilmente montate a mosaico, come mattoni accampati del dolore del mondo.
Fabio Mauri, discendeva dalla famiglia aristocratica d’un signore dell’editoria quale Bompiani (lo chiamava compitamente «zio Valentino»: il conte-zio), era fratello di quella donna non meno impagabile che fu Silvana Ottieri, la dolorosa e luminosa moglie di Ottiero Ottieri, e figlio di quel Mauri, fondatore delle fortunate Messaggerie che ancor oggi portano quel nome, primo importatore di Micky Mouse in italiano (ce n’è traccia nella pittura a fumetti di Fabio, molto prima di Lichtenstein). Fu uomo di lettere e di teatro (L’Isola) prima sposato ad Adriana Asti e poi a lungo compagno della fotografa Elisabetta Catalano.
Ad un certo punto della vita sentì il dovere anche morale, dopo tele espressionistiche non indegne e la scoperta-choc dei sacchi di Burri, d’accedere all’arte della performance e del corpo. Mettendo in scena i suoi dilemmi, che erano quelli stessi, storici, d’una generazione del rimosso. Mentre impazzavano le stramberie postmodern e le stucchevoli poltrone Proust, lui gettava sul grugno delle gallerie-bene poltrone molto Mies van der Rohe, ma simulate di pelle umana: rianimava il tragico fantasma della Storia. E mentre altri «attori» di body art e di giochetti Gutai usavano la performance in chiave spesso spensierata e tardo-dadaista, Mauri mise in gioco se stesso come ombra e come complesso di colpa (non a caso Lea Vergine, per lui, disturbò il celebra distico di Valéry: «il pittore si dà con il suo corpo»).
Vivendo sulla propria pelle, lui non ebreo, ma vittima comunque delle stoltizie delle ideologie, le colpe dei padri complici e d’un mondo d’improvviso dissennato (quello che, dai versi di Hölderlin e Rilke, passa ai grugniti tribunizi del nazismo e agli orrori decorosi dei campi di concentramento) o alla quieta e non meno colpevole banalità del male teorizzata da Hannah Arendt, però voltata in salsa Finzi Contini. Recuperando nel recinto claustrofobico d’una galleria romana o veneziana i ludi sinistri del fascismo, scimmiottante le parate naziste, con opere che crepitano titoli in un minaccioso tedesco o ci parlano della fine della Storia e delle storie (molto prima di Ed Ruscha «dipingendo» ingigantita la parola End sui suoi schermi incinti di nulla e di allarmante vuoto, color avorio).
Abbiamo parlato della famiglia: perché quest’ultimo signore dell’arte, di simpatia davvero impagabile, che aveva conosciuto la durezza dei ricoveri psichiatrici (come il cognato Ottiero) e il rigore certosino dei suoi ritiri mistici, è impensabile senza l’eco del suo contesto famigliare, cui partecipava anche Pasolini (con cui fonda Setaccio e poi anche Officina. Ma sarà compagno di strada pure del Gruppo '63 e di Quindici) ebbene, aveva cominciato a morire insieme alla morte dei suoi, ripetendo «perché loro prima di me?». Decide così di proiettare gli intimi filmini di casa su strutture immobili come cassettoni e cassaforti.
Questo stava a cuore a Mauri, artista molto più grande della sua fama, scrittore fiammante (vedi i suoi Scritti recentemente usciti da Garzanti), filosofo dell’immagine, concettuale emotivo e concreto: l’etica incrollabile dell’arte, che smascheri l’inganno.”
= Marco Vallora =
Che ne pensate ?
(tanto per uscire dalla solita noia)
Exhibitions — I was not new — Hauser & Wirth
“E’ difficile non ricordare alla notizia della scomparsa a 83 anni di Fabio Mauri (era malato da tempo), l’emozione, vissuta nel ‘93 alla Biennale di fronte al suo magnifico ed indimenticabile Muro Occidentale o del Pianto, una parete allampanata e crollante di valigie usurate d’emigranti, impregnate dall’unto colloso della disperazione ed abilmente montate a mosaico, come mattoni accampati del dolore del mondo.
Fabio Mauri, discendeva dalla famiglia aristocratica d’un signore dell’editoria quale Bompiani (lo chiamava compitamente «zio Valentino»: il conte-zio), era fratello di quella donna non meno impagabile che fu Silvana Ottieri, la dolorosa e luminosa moglie di Ottiero Ottieri, e figlio di quel Mauri, fondatore delle fortunate Messaggerie che ancor oggi portano quel nome, primo importatore di Micky Mouse in italiano (ce n’è traccia nella pittura a fumetti di Fabio, molto prima di Lichtenstein). Fu uomo di lettere e di teatro (L’Isola) prima sposato ad Adriana Asti e poi a lungo compagno della fotografa Elisabetta Catalano.
Ad un certo punto della vita sentì il dovere anche morale, dopo tele espressionistiche non indegne e la scoperta-choc dei sacchi di Burri, d’accedere all’arte della performance e del corpo. Mettendo in scena i suoi dilemmi, che erano quelli stessi, storici, d’una generazione del rimosso. Mentre impazzavano le stramberie postmodern e le stucchevoli poltrone Proust, lui gettava sul grugno delle gallerie-bene poltrone molto Mies van der Rohe, ma simulate di pelle umana: rianimava il tragico fantasma della Storia. E mentre altri «attori» di body art e di giochetti Gutai usavano la performance in chiave spesso spensierata e tardo-dadaista, Mauri mise in gioco se stesso come ombra e come complesso di colpa (non a caso Lea Vergine, per lui, disturbò il celebra distico di Valéry: «il pittore si dà con il suo corpo»).
Vivendo sulla propria pelle, lui non ebreo, ma vittima comunque delle stoltizie delle ideologie, le colpe dei padri complici e d’un mondo d’improvviso dissennato (quello che, dai versi di Hölderlin e Rilke, passa ai grugniti tribunizi del nazismo e agli orrori decorosi dei campi di concentramento) o alla quieta e non meno colpevole banalità del male teorizzata da Hannah Arendt, però voltata in salsa Finzi Contini. Recuperando nel recinto claustrofobico d’una galleria romana o veneziana i ludi sinistri del fascismo, scimmiottante le parate naziste, con opere che crepitano titoli in un minaccioso tedesco o ci parlano della fine della Storia e delle storie (molto prima di Ed Ruscha «dipingendo» ingigantita la parola End sui suoi schermi incinti di nulla e di allarmante vuoto, color avorio).
Abbiamo parlato della famiglia: perché quest’ultimo signore dell’arte, di simpatia davvero impagabile, che aveva conosciuto la durezza dei ricoveri psichiatrici (come il cognato Ottiero) e il rigore certosino dei suoi ritiri mistici, è impensabile senza l’eco del suo contesto famigliare, cui partecipava anche Pasolini (con cui fonda Setaccio e poi anche Officina. Ma sarà compagno di strada pure del Gruppo '63 e di Quindici) ebbene, aveva cominciato a morire insieme alla morte dei suoi, ripetendo «perché loro prima di me?». Decide così di proiettare gli intimi filmini di casa su strutture immobili come cassettoni e cassaforti.
Questo stava a cuore a Mauri, artista molto più grande della sua fama, scrittore fiammante (vedi i suoi Scritti recentemente usciti da Garzanti), filosofo dell’immagine, concettuale emotivo e concreto: l’etica incrollabile dell’arte, che smascheri l’inganno.”
= Marco Vallora =
Che ne pensate ?