La Quadriennale di Roma riscopre l’arte degli anni ’70. Intervista a Daniela Lancioni
La Quadriennale di Roma, che ha sede da tempo a Villa Carpegna a Roma, è dagli anni Trenta una tra le più importanti istituzioni che si occupano di promuovere l’arte contemporanea italiana, attraverso l’organizzazione di grandi eventi espositivi nella capitale. Una rassegna che tra alti e bassi, ha raggiunto, dal 1931 al 2008, le quindici edizioni, a cui vanno aggiunte le mostre collaterali, storiche e retrospettive tenute tra un evento e l’altro.
Luigi Ontani, San Sebastiano, 1970
Luciano Giaccari in una foto di repertorio
L'Attico di Via Beccaria, Roma, con l'ingresso dei cavalli di Kounellis, gennaio 1969
Bonito Oliva e Lonardi Buontempo, Vitalità del negativo, Palazzo delle Esposizioni, Roma, dicembre 1970
Graziella Lonardi Buontempo, Palma Bucarelli e Christo alle Mura Aureliane, Roma, 1974
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Oltre alla ricca attività espositiva, la Fondazione si propone da diversi anni di organizzare dei percorsi di riflessione e studio che hanno come oggetto l’arte degli ultimi decenni, attraverso la programmazione di iniziative volte ad approfondire il rapporto con il nostro recente passato, prevedendo il confronto diretto con i suoi protagonisti.
Dopo aver rivolto attenzione all’arte degli anni Novanta ed Ottanta, quest’anno si è dato il via a un ciclo di incontri dedicati ad analizzare la cultura visiva specifica: L’arte negli anni ’70, le parole e le immagini, con le sue proiezioni – oltre al documentario sulla X Quadriennale del 1973,i alcune opere video – i filmati realizzati da Luciano Giaccari, quelli prodotti da Art/Tapes/22 e i video conservati alla GAM di Torino.consiste soprattutto in uno scambio diretto con alcuni tra gli artisti che hanno dominato la scena durante quel decennio così rivoluzionario per l’arte e per la cultura. In particolare hanno partecipato alla manifestazione Sandro Chia, Jannis Kounellis,
Michele Zaza, Carlo Maria Mariani, Maurizio Mochetti e Luigi Ontani
A condurre il progetto e le conversazioni con gli artisti è Daniela Lancioni, critica d’arte e curatrice senior del Palazzo delle Esposizioni, luogo da sempre deputato a ospitare le rassegne istituzionali della Quadriennale. A lei dedichiamo questa intervista:
Che ruolo ha avuto la Fondazione Quadriennale nella promozione degli artisti italiani in un decennio rivoluzionario come gli anni settanta?
“La sua incidenza negli anni Settanta è dovuta soprattutto alla mostra La ricerca estetica dal 1960 al 1970 del 1973 (X Quadriennale d’Arte), che credo abbia rappresentato l’edizione più significativa della Quadriennale di Roma, seconda per importanza solo a quella del 1935. Quest’esposizione, la cui ideazione si deve soprattutto a Filiberto Menna e ad Alberto Boatto, ha avuto il merito di fare il punto sull’arte italiana di quegli anni in modo puntuale, intelligente ed anche sperimentale. In questa occasione, infatti, alla facciata del Palazzo delle Esposizioni fu addossata una gigantografia della facciata stessa, attuando così un’operazione tautologica.”
Qual’è stata l’importanza di una città come Roma, con le sue istituzioni e le sue gallerie, in quest’epoca di grande fermento artistico?
“Roma in quegli anni rappresentò una grande piazza per l’arte contemporanea: le mostre e le opere che qui vennero realizzate o che vi giunsero la resero una grande capitale internazionale dell’arte. Il merito è dovuto alla presenza di grandi artisti e all’attività di vivaci gallerie che, sebbene non troppo rilevanti in ambito mercantile e commerciale, si dimostrarono molto abili dal punto di vista della promozione culturale. Mi riferisco in particolare a L’Attico di Fabio Sargentini, attivo già negli anni Sessanta. Altri importanti galleristi avviarono la loro attività a Roma nel corso degli anni Settanta: Gian Enzo Sperone, tra gli altri, Ugo Ferranti, Enzo Cannaviello e Giuliana De Crescenzo; a questi sono poi da aggiungere presenze fondamentali già operative a partire dalla fine degli anni Cinquanta, come Plinio de Martiis con La Tartaruga e Gian Tomaso Liverani con La Salita.
Era anche un momento in cui, data la crisi petrolifera, si verificò un abbattimento generale dell’economia internazionale che si andò a sommare al vantaggio di costi all’epoca di gran lunga inferiori a quelli odierni. Lo scambio tra gli artisti era continuo e a Roma giungevano opere provenienti da tutto il mondo. Nel decennio precedente l’arte americana aveva egemonizzato il panorama internazionale, mentre adesso, probabilmente a causa di un logoramento dell’immagine americana dovuto alla risonanza di avvenimenti drammatici come la guerra del Vietnam, ma anche grazie alla presenza di grandi artisti ed intelligenti curatori, pensiamo a Harald Szeemann, l’Europa torna a essere un forte interlocutore nella scena internazionale.”
A cosa è dovuta questa confluenza di artisti nella capitale, rispetto ad altri poli culturali come Milano e Torino?
“A Roma c’è quel mostro sacro di Burri! Nasce il culto di Giorgio de Chirico, sebbene in quegli anni fosse ancora una presenza piuttosto appartata. A Roma si stanziano o transitano importanti artisti stranieri: Twombly, Buren, Kosuth, Douglas Huebler, Richard Long, Gilbert & George… Poi c’è una schiera di giovani straordinari come Jannis Kounellis, Mario Schifano, Tano Festa, Eliseo Mattiacci, Luca Maria Patella, Maurizio Mochetti… Pino Pascali muore nel 1968, ma l’eco della sua arte è ancora molto forte, Alighiero Boetti si trasferisce a Roma da Torino proprio all’inizio degli anni settanta. Senza dimenticare l’attività di alcuni tra gli astrattisti del dopoguerra, come Giulio Turcato, Carla Accardi e Pietro Consagra, che continuano ad essere attuali.
Ecco poi arrivare i più giovani: Gino De Dominicis, Luigi Ontani, Vettor Pisani, Sandro Chia, Ferruccio de Filippi, Laura Grisi… il loro exploit è meraviglioso e ogni artista segna il suo passaggio in modo diverso. Infine non è da trascurare la presenza di grandi “animatori” come Tullio Catalano e Maurizio Benvenuti che, lavorando fuori delle istituzioni, non cessano di animare la città con iniziative molto singolari sulla scia e sull’esempio del Situazionismo.
Oltre a questi non è da trascurare la presenza di artisti e musicisti americani, rivoluzionari nell’ambito del teatro e della danza, invitati a Roma da Sargentini proprio in questo periodo: tra questi Philip Glass, Charlemagne Palestine, Terry Riley, Trisha Brown, Simon Forti… Ad essere accolti sono anche rappresentanti della cultura orientale, come l’indiano Ravi Shankar.
Insieme a loro erano a Roma tutti coloro che avevano rivoluzionato la scena del teatro in Italia alla fine degli anni Sessanta. Insieme di convergenze che resero forte la commistione di linguaggi fra arte teatrale e arte visiva.”
Senza dimenticare l’apporto della critica e dei critici d’arte…
“Certamente. Innanzitutto oltre ad artisti e gallerie, Roma aveva un’istituzione eccelsa come gli Incontri Internazionale d’Arte, impresa eroica e monumentale messa su da Graziella Lonardi Buontempo a Palazzo Taverna. Oltre alla promozione di continue iniziative culturali, fu proprio grazie ad essa che nacquero due tra le più importanti esposizioni del decennio: Vitalità del negativo nell’arte italiana 1960/70 che, svoltasi alla fine del 1970 al Palazzo delle Esposizioni, delineò un excursus sul meglio dell’arte italiana del decennio appena trascorso e Contemporanea (1973-1974), universalmente riconosciuta come una tra le più importanti mostre d’arte mai realizzate al mondo, in realtà rassegna interdisciplinare. Durante quest’ultima il parcheggio sotterraneo di Villa Borghese, appena ultimato da Luigi Moretti e non ancora assegnato a destinazione d’uso, venne riempito da centinaia di opere d’arte provenienti da tutto il mondo: dai grandi della pop art, al minimalismo americano, fino a Joseph Beuys. Tutto quanto sotto la cura artistica di Achille Bonito Oliva, senz’altro il critico e osservatore di maggiore rilievo a Roma in quegli anni. Egli rielabora i modi della critica oltrepassando la pura analisi dei fenomeni dell’arte e approdando a una critica creativa che assume l’evento della mostra come oggetto definito di questa nuova creatività.”
L’arte negli anni Settanta: le parole e le cose: nel dare questo titolo alla rassegna di incontri si è ispirata al testo Le parole e le cose di Foucault? Può spiegare meglio a cosa si riferisce?
“A questo proposito mi rifaccio a quello che è l’incipit del libro di Filiberto Menna La linea analitica dell’arte moderna. Le figure e le icone, dove lo studioso afferma che si può dire veramente contemporanea solo l’arte che accetti l’idea dell’arbitrarietà del linguaggio. Dunque il linguaggio non è più un elemento a cui ci si affida per identificare o rappresentare la realtà, ma si rivela uno strumento che gli uomini usano per comunicare e che ha una sua storia, pertanto anch’esso analizzabile e interpretabile.
Il pensiero di Menna credo derivi dallo stesse domande che si pone Foucault, se non da lui stesso. Le parole e le cose (opera del 1966) è un testo cardine degli anni Settanta. Con l’idea di “archeologia del sapere” si vuole mettere in atto un’operazione archeologica di riflessione, che ci fa guardare agli episodi della storia dell’arte e della cultura non soltanto attraverso fatti e vicende, ma approfondendo e analizzando le strutture mentali che hanno determinato tali fatti e vicende, con l’idea che queste strutture siano passibili di cambiamento.”
Nel 1968 Roland Barthes proclama la “morte dell’autore” e nel 1971, con il saggio Dall’opera al testo, sottolinea come tutte le certezze moderniste riconosciute sin dall’epoca delle Avanguardie Storiche vengono messe in discussione: il linguaggio assume un ruolo diverso nell’arte e nella cultura, acquistando la sua autonomia.
“Il concetto di “morte dell’autore”, che Barthes considera valido a partire da autori come Mallarmé, non credo sia mai stato di facile interpretazione. Non parliamo di una rinuncia all’autorialità, ma di una concezione di Autore che, non più riassumibile in una individualità, è diventato la somma di tutte le individualità che l’hanno preceduto. Già alcuni artisti ci avevano introdotto a questo tipo di riflessione. Giulio Paolini, soprattutto, afferma che il singolo artista non può avere la responsabilità totale della propria opera, ma che questa responsabilità va condivisa con tutte le opere che lo hanno preceduto, privilegiando l’idea di identificare il fil rouge della Storia dell’Arte come patrimonio collettivo.
Kounellis pone la questione più dal punto di vista antropologico: in una sua intervista a Marisa Volpi afferma che quando si arriva in un posto non ha senso arrivare con un quadro già fatto e attaccarlo al muro, ma bisogna ascoltare quello che il luogo ha da dire. In questo senso si tratta di condividere la responsabilità autoriale con un contesto più ampio, pratica che corre lungo tutto il decennio, ma non sempre ben intesa perché spesso banalizzata. Al contrario di ciò che si potrebbe intendere, l’autore che rifiuta la concezione romantica di individualità artistica, in molti casi non fa altro che estendere ed espandere tracce di sé al mondo che lo circonda.”
Gli artisti da lei invitati in questo ciclo di incontri partecipano tutti ad un’epoca di grande rivoluzione culturale, ma ognuno reagisce agli stravolgimenti culturali e politici del ’68 e di tutto il decennio dei sessanta attraverso atteggiamenti diversi, non solo per quanto riguarda le tecniche.
“In realtà per noi storici dell’arte la data cruciale è il 1967, anno in cui Sargentini organizza la mostra Fuoco, Immagine, Acqua, Terra e Celant lancia la sua teoria critica sull’Arte Povera. Dal 1966 parte la cronologia dell’americana Lucy Lippard sulla Dematerializzazione dell’oggetto d’arte. Tra il 1966 e il 1967 si stigmatizza un radicale e definitivo cambiamento nei linguaggi, determinando un vero e proprio sconvolgimento sulla scena internazionale. Il decennio dei Settanta inizia quindi con una grande rivoluzione alle spalle e per molto tempo è stato trascurato con la convinzione che tutto quello che doveva succedere fosse già accaduto. Come succede a Fabrizio Del Dongo nella Certosa di Parma: il protagonista arriva per assistere alla Battaglia di Waterloo quando si era già conclusa. Metafora per dire che i Settanta non sono anni di grandi sconvolgimenti, ma è un periodo in cui una grande libertà di linguaggi viene messa in opera, testata, modulata, maneggiata e affidata alle opere, al di là delle prese di posizioni radicali e ideologiche con cui certe opere estreme erano state realizzate precedentemente.
Non c’è più una strada maestra che si segue, una tradizione a cui affidarsi, le opere sono il risultato di un coacervo di innesti diversi, frutto di una complessità che deriva dal pensiero filosofico e dalle contingenze comuni. E in questo contesto ogni autore trova una propria strada: c’è che si rifà alla tradizione per libera scelta e chi intraprende nuove vie. Kounellis e Ontani, ad esempio, sperimentano tecniche diverse tenendo però in mente il modo tradizionale di guardare attraverso il perimetro del quadro: le loro installazioni, azioni o tableau vivant, sebbene radicali nel far convergere arte e vita, conservano tuttavia un assetto frontale, suggerendo un punto di vista allo spettatore, proprio come fossero dei quadri. Abbandonano, quindi, la formalizzazione tradizionale, ma conservano un impianto atto a distanziare l’arte dalla realtà. In questa stessa direzione è maestro Giulio Paolini che, all’interno di un perimetro dato, la cornice, apre una prospettiva garantita dal punto di vista dell’autore e dello spettatore, che suggerisce un profondità infinita e dà la vertigine.
Le loro non sono opere che si pongono come modelli ideali della realtà, ma certamente questi sono artisti che si impegnano a definire un orizzonte, un senso altro a quello che la società consegna loro.”
Gli anni Settanta sono stati critici per molti versi. Che senso ha rileggere un’epoca come questa alla luce della crisi culturale che stiamo vivendo in questi anni?
“Credo che parlare di “crisi” implichi un giudizio negativo che può essere dato solamente da chi conosce nel dettaglio gli avvenimenti di un’epoca, dunque non mi sento di condividere questa visione. La crisi nell’arte negli anni Settanta non esiste: a mio parere molti artisti emersi nel decennio precedente hanno dato nei Settanta il meglio di se stessi raggiungendo una maturità straordinaria. Dopo aver lavorato a una destrutturazione dell’opera d’arte, l’hanno in qualche modo reincarnata, resa punto di convergenza di istanze diverse non più separabili, spogliandola però da ogni ingombrante autorità.”
Nonostante ciò vivere il periodo post anni Sessanta fa sì che verifichi un crollo e una dispersione non solo dal punto di vista politico e ideologico, ma anche culturale. Il frazionamento dei movimenti e delle ideologie che avviene in questi anni può essere considerato indice di crisi?
“Questo fenomeno può essere considerato un male ma anche un bene: vengono meno le sintesi critiche, nonostante esistano ancora eccezioni di grande rilievo come il movimento della Transavanguardia. Il frazionamento dei comportamenti e la relativa impossibilità di riassumerli in una qualche formula, non è detto sia indice di crisi.
D’altra parte quegli anni sono indubbiamente molto difficili: la crisi politica italiana è evidente, il Paese è attraversato da cattive azioni che ancora non siamo in grado di ascrivere a qualcuno con esattezza, la rabbia giovanile e lo scontento sociale segnano una quotidianità per molti versi pesante. Non ultimo il fenomeno del terrorismo, che raggiunge l’apice del terrifico con l’epilogo drammatico dell’uccisione di Aldo Moro.
Tuttavia non sono da trascurare gli aspetti favorevoli apportati da quest’epoca. A tal proposito condivido l’analisi di Vittorio Foa e Marco Revelli, secondo cui sebbene sia stato un decennio caratterizzato da grandi disastri politici, ha introdotto delle trasformazioni positive nella vita quotidiana degli italiani: la conquista dello Statuto dei lavoratori, il divorzio… Il diritto di famiglia cambia e le donne sono finalmente equiparate agli uomini. Al di là di tutto il nostro stile di vita odierno, la regolazione sociale e il rapporto tra individui che viviamo oggi è dovuto a cambiamenti avvenuti in quegli anni.”
Torniamo alla storia dell’arte: si è da poco conclusa la mostra Addio anni ’70 al Palazzo Reale di Milano. Il curatore Francesco Bonami afferma la necessità di dire addio a questo decennio poiché ormai tramutatosi in zavorra, così ingombrante per i suoi stravolgimenti artistici e culturali, da non permetterci di guardare avanti.
È d’accordo con questa visione?
“Rispondo in una maniera banale: ogni cosa e forma del passato ha il diritto di essere interrogata.
Personalmente non mi sentirei di liquidare questo passato come zavorra, come non lo farei con nessun’altra epoca.
Ovviamente esistono passati più attuali e meno attuali. Io ritengo che gli anni Settanta siano un passato attuale, che valga ancora la pena interrogare, per capire chi siamo oggi. Anche perché molte domande sono rimaste senza risposta, non solamente per quanto riguarda gli avvenimenti storici e politici. Credo che certi sviluppi dell’arte odierna trovino le loro radici proprio in quel decennio. Senza dubbio si è trattato di un decennio molto politicizzato, ma non penso che quello sia l’unico modo di leggere l’arte di quegli anni. Lo considero al contrario un aspetto marginale. Gli artisti del periodo avevano spesso una forte adesione politica, ma in realtà il discorso dell’arte si è dimostrato del tutto autonomo. Coloro che lo hanno tradotto con più immediatezza in azioni politiche sono artisti molto interessanti per l’epoca, ma forse meno per la storia dell’arte.
Bonami fa una mostra molto tagliata sugli aspetti politici: a me ha stupito per esempio l’assenza di Paolini, artista fondamentale per l’esegesi di quegli anni e ben presente sulla scena milanese. Credo ci sia stata l’intenzione di guardare a quegli anni attraverso un punto di vista che, secondo me, non esaurisce la visione di un decennio così importante.”