di Capogrossi leggevo che a 10 anni vide due bambini ciechi, come raccontò da adulto, «disegnare su fogli pieni di piccoli segni neri, una sorta di alfabeto misterioso».
Fu per lui uno shock
E leggevo anche un teso del Barbero che diceva:
In Italia la sua nuova pittura procurò scandalo e sdegno, all’estero solo successi.
Con la mostra del 1950 alla Galleria del Secolo a Roma, che, mi si passi il bisticcio, è da ritenere una delle mostre del secolo, Capogrossi si immise da subito al centro della grande corrente internazionale.
Già un anno dopo è l’unico italiano chiamato da Michel Tapié nella mostra «Véhémences Confrontées» di Parigi, dove esposero Pollock, Kline e Mathieu; nel ’53 è invitato da James Johnson Sweeney in «Young European Painters» al Guggenheim di New York, nel ’55 è tra gli espositori di «The New Decade» al MoMA.
In 10 anni arriva in 200 collezioni americane, tra cui molti musei: è una febbre.
Lo comprava Rockefeller, ne aveva uno in casa Leo Castelli, che pure gli dedicò una personale nel ’58.
Il successo in Europa fu, come spesso è capitato, un effetto di ritorno.