Alessandro Celli
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Riprendiamoci la voglia di scrivere di arte,
ultimamente di mercato sono stanco (oppure non ho moneta?)
«Quello che ho fatto l’ho dimenticato a memoria»
Vincenzo Agnetti
Dimenticare e cancellare, fare tabula rasa di tutto, ad eccezione del concetto, dell’idea, che arriva e subito passa, si trasforma, lasciando una traccia nel presente, un filo di energia
Dunque, vuoti, assenze, volute dimenticanze. E l’arte dov’è?
«Arte no», solo pensiero…..
Interessante questa recensione su Vincenzo Agnetti, di cui però non trovo la fonte ufficiale, qualcuno sa chi la scrisse?
In forte contrasto con la società contemporanea all’insegna del consumismo e dell’impulsività, le opere di Vincenzo Agnetti richiedono un forte impegno intellettuale.
Il grado analitico del suo pensiero e la sua serrata articolazione di teorie e intuizioni concettuali hanno reso arduo l’esercizio dialettico con il suo lavoro.
La sua attività artistica, sviluppatasi per meno di un quindicennio, ha comunque affrontato un ampio spettro di problemi, sempre mettendosi in discussione, pungolandosi a sconfinare dai limiti imposti dalla tradizione e dall’abitudine.
L’artista non limita la sua ricerca al campo visivo ma compie indagini sulla natura e sul funzionamento dei diversi linguaggi, sull’interrelazione dello spazio e del tempo, sulla peculiarità dei mezzi di comunicazione, sulle possibilità di resistenza alle distorsioni del potere e sulle ipotesi di intervento sulla realtà.
Agnetti esordisce nei primi anni Cinquanta nell’ambito della pittura informale, credendo di trovare in questa modalità espressiva le “parole” pittoriche più libere e quindi più adatte a dar voce alla sua impellente esigenza di efficacia espressiva. Insoddisfatto delle possibilità offerte dall’informale, l’artista avvia un lavoro di matrice concettualista che non mira più a comunicare ma intende operare al fine di rendere cosciente lo spettatore dell’esistenza e della questione del linguaggio. La sua si configura come una lotta contro tutti i sistemi che tendono immobilizzare il pensiero in strutture rigide, lotta condotta mettendo in atto un rovesciamento delle usuali modalità di percezione e comunicazione. Per raggiungere il suo scopo, Agnetti ricorre sistematicamente a un uso creativo dell’ossimoro: la sua ricerca si sintetizza prevalentemente in oggetti che si rivelano all’osservatore nel momento in cui scompaiono o in spazi vuoti che acquisiscono forme di percettibilità improvvise e imprevedibili.
Emblematico è Il Libro dimenticato a Memoria (1969) in cui Agnetti enuncia l’apprendimento del dimenticare quale pratica da sviluppare per metabolizzare in noi la cultura trasformandola in energia mentale. L’artista sostiene che il modo migliore per ricordare sia dimenticare. Dimenticare, infatti, significa cancellare le forme del pensiero e ogni codificazione preordinata; equivale a liberare l’essenza della vita, che in tal modo torna a fluire in modo indeterminato e dunque autentico; in sintesi, dimenticare non vuol dire uccidere il ricordo, ma liberarlo.
Con la Macchina Drogata (1968), una calcolatrice da ufficio che Agnetti manomette in modo che a ogni numero, nei martelletti che battono sulla carta, sia collegata una lettera, l’artista neutralizza l’uso dello strumento, contestando il suo valore oggettuale e mette in discussione il valore del linguaggio.
Avverso al linguaggio statico e obsoleto, Agnetti conduce un’articolata ricerca, quasi maniacale, dell’espressione perfetta, ontologicamente adatta a esprimere la complessità dell’essere. La sua arte non risponde alle esigenze espresse dal consumatore medio, ma asseconda la sua necessità di esprimersi ed esternare le sue teorie e le sue intuizioni sul linguaggio, sull’arte ma soprattutto sull’esistenza.
ultimamente di mercato sono stanco (oppure non ho moneta?)
«Quello che ho fatto l’ho dimenticato a memoria»
Vincenzo Agnetti
Dimenticare e cancellare, fare tabula rasa di tutto, ad eccezione del concetto, dell’idea, che arriva e subito passa, si trasforma, lasciando una traccia nel presente, un filo di energia
Dunque, vuoti, assenze, volute dimenticanze. E l’arte dov’è?
«Arte no», solo pensiero…..
Interessante questa recensione su Vincenzo Agnetti, di cui però non trovo la fonte ufficiale, qualcuno sa chi la scrisse?
In forte contrasto con la società contemporanea all’insegna del consumismo e dell’impulsività, le opere di Vincenzo Agnetti richiedono un forte impegno intellettuale.
Il grado analitico del suo pensiero e la sua serrata articolazione di teorie e intuizioni concettuali hanno reso arduo l’esercizio dialettico con il suo lavoro.
La sua attività artistica, sviluppatasi per meno di un quindicennio, ha comunque affrontato un ampio spettro di problemi, sempre mettendosi in discussione, pungolandosi a sconfinare dai limiti imposti dalla tradizione e dall’abitudine.
L’artista non limita la sua ricerca al campo visivo ma compie indagini sulla natura e sul funzionamento dei diversi linguaggi, sull’interrelazione dello spazio e del tempo, sulla peculiarità dei mezzi di comunicazione, sulle possibilità di resistenza alle distorsioni del potere e sulle ipotesi di intervento sulla realtà.
Agnetti esordisce nei primi anni Cinquanta nell’ambito della pittura informale, credendo di trovare in questa modalità espressiva le “parole” pittoriche più libere e quindi più adatte a dar voce alla sua impellente esigenza di efficacia espressiva. Insoddisfatto delle possibilità offerte dall’informale, l’artista avvia un lavoro di matrice concettualista che non mira più a comunicare ma intende operare al fine di rendere cosciente lo spettatore dell’esistenza e della questione del linguaggio. La sua si configura come una lotta contro tutti i sistemi che tendono immobilizzare il pensiero in strutture rigide, lotta condotta mettendo in atto un rovesciamento delle usuali modalità di percezione e comunicazione. Per raggiungere il suo scopo, Agnetti ricorre sistematicamente a un uso creativo dell’ossimoro: la sua ricerca si sintetizza prevalentemente in oggetti che si rivelano all’osservatore nel momento in cui scompaiono o in spazi vuoti che acquisiscono forme di percettibilità improvvise e imprevedibili.
Emblematico è Il Libro dimenticato a Memoria (1969) in cui Agnetti enuncia l’apprendimento del dimenticare quale pratica da sviluppare per metabolizzare in noi la cultura trasformandola in energia mentale. L’artista sostiene che il modo migliore per ricordare sia dimenticare. Dimenticare, infatti, significa cancellare le forme del pensiero e ogni codificazione preordinata; equivale a liberare l’essenza della vita, che in tal modo torna a fluire in modo indeterminato e dunque autentico; in sintesi, dimenticare non vuol dire uccidere il ricordo, ma liberarlo.
Con la Macchina Drogata (1968), una calcolatrice da ufficio che Agnetti manomette in modo che a ogni numero, nei martelletti che battono sulla carta, sia collegata una lettera, l’artista neutralizza l’uso dello strumento, contestando il suo valore oggettuale e mette in discussione il valore del linguaggio.
Avverso al linguaggio statico e obsoleto, Agnetti conduce un’articolata ricerca, quasi maniacale, dell’espressione perfetta, ontologicamente adatta a esprimere la complessità dell’essere. La sua arte non risponde alle esigenze espresse dal consumatore medio, ma asseconda la sua necessità di esprimersi ed esternare le sue teorie e le sue intuizioni sul linguaggio, sull’arte ma soprattutto sull’esistenza.