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Altro che Bossi. Saranno Salveenee e Dee Maio a metterla in atto
Editoriale | Il rischio di non riuscire a tenere insieme il Paese - Corriere.it
Tale dunque sembra essere il rischio incombente se il governo non cambia marcia. Ma quale sarà il rischio se e quando (fra qualche tempo) il governo dovesse cadere? Il rischio, a quel punto, è che la divisione fra Settentrione e Meridione — due società diverse alla luce di tutti gli indicatori disponibili — esploda senza possibilità di mediazioni.
Per la prima volta nella storia della Repubblica non c’è un federatore, un partito capace di tenere insieme Nord e Sud. Lo fu per decenni la Democrazia Cristiana (dominante in Veneto ma anche in Sicilia). Lo fu poi Silvio Berlusconi. Sembrava sul punto di diventarlo, in seguito, il Partito democratico nella veste di «partito della nazione».
Non è più così. Al Centro-nord dilaga la Lega, il Sud è in mano ai 5 Stelle. Vero, i 5 Stelle hanno ottenuto successi anche al Nord e Salvini ha colto alcuni buoni risultati al Sud. Ma poiché la competizione per le risorse entro il governo è fra nordisti e sudisti, è probabile che quando si voterà di nuovo gli insediamenti regionali contrapposti di Lega e 5 Stelle diventeranno ancora più netti.
I 5 Stelle, al pari di certi notabili politici meridionali, dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris al governatore della Puglia Michele Emiliano, sono espressioni di un Sud che ha scelto di sposare l’ideologia anti-industriale. Certo, non tutto il Sud è così, c’è anche un Sud dinamico che, fra mille difficoltà, cerca di restare agganciato al carro della modernità europea. Ma è in minoranza. Il Mezzogiorno risente oggi dell’eclisse di quel meridionalismo che, dalla unità d’Italia fino a qualche decennio fa, aveva impegnato energie e cervelli nello sforzo di mettere fine a una storica arretratezza. Quel movimento di pensiero e di azione, grazie al quale fu possibile realizzare cose positive nel Mezzogiorno, oggi non esiste più. Da qui la formazione di una coalizione sociale e politica nemica dell’economia di mercato, che vuole la statalizzazione più o meno integrale di tutto, e che chiede di ridare slancio ai vecchi sistemi assistenziali. L’idea è questa: «Il Nord ci ha sempre sfruttato, ora deve mantenerci». Spiegare i 5 Stelle non è difficile: variante italiana del peronismo, sono i rappresentanti di un Mezzogiorno che chiede più Stato e più sussidi.
Il caso della Lega è più complicato. Per inciso, non ci si faccia fuorviare dai sondaggi (che le danno oggi più consensi che ai 5 Stelle). Tra le «intenzioni di voto» e i voti c’è di mezzo il mare. La Lega è in crescita ma di quanto lo è lo sapremo solo quando si voterà.
La Lega è più difficile da inquadrare dei 5 Stelle. Rappresenta una parte del Nord produttivo (anche se non soltanto quello produttivo: vedi il no alla legge Fornero), con le sue esigenze comunque opposte a quelle del Sud pentastellato: un Nord che chiede riduzione delle tasse, meno burocrazia, sostegno alle grandi opere, più sicurezza per effetto di politiche dell’immigrazione non lassiste. Ma la Lega ha anche posizioni che, apparentemente, non sono coerenti con il suo insediamento sociale: si pensi al putinismo o all’antieuropeismo spinto fino al rischio di farci scivolare fuori dall’eurozona. A conferma del fatto che le posizioni politiche non sono mai il meccanico riflesso di interessi economici.
Il governo dura perché la condivisione del potere è un fattore di stabilità. E perché, almeno se e fin quando la situazione economica non precipiterà, i compromessi sulla spartizione delle risorse (e posti) fra nordisti e sudisti, funzionano con la soddisfazione di entrambi. Ma arriverà un giorno in cui i compromessi non saranno più possibili. Allora il governo cadrà. E la divisione Nord/Sud, probabilmente, ci esploderà in faccia.
Editoriale | Il rischio di non riuscire a tenere insieme il Paese - Corriere.it
Tale dunque sembra essere il rischio incombente se il governo non cambia marcia. Ma quale sarà il rischio se e quando (fra qualche tempo) il governo dovesse cadere? Il rischio, a quel punto, è che la divisione fra Settentrione e Meridione — due società diverse alla luce di tutti gli indicatori disponibili — esploda senza possibilità di mediazioni.
Per la prima volta nella storia della Repubblica non c’è un federatore, un partito capace di tenere insieme Nord e Sud. Lo fu per decenni la Democrazia Cristiana (dominante in Veneto ma anche in Sicilia). Lo fu poi Silvio Berlusconi. Sembrava sul punto di diventarlo, in seguito, il Partito democratico nella veste di «partito della nazione».
Non è più così. Al Centro-nord dilaga la Lega, il Sud è in mano ai 5 Stelle. Vero, i 5 Stelle hanno ottenuto successi anche al Nord e Salvini ha colto alcuni buoni risultati al Sud. Ma poiché la competizione per le risorse entro il governo è fra nordisti e sudisti, è probabile che quando si voterà di nuovo gli insediamenti regionali contrapposti di Lega e 5 Stelle diventeranno ancora più netti.
I 5 Stelle, al pari di certi notabili politici meridionali, dal sindaco di Napoli Luigi de Magistris al governatore della Puglia Michele Emiliano, sono espressioni di un Sud che ha scelto di sposare l’ideologia anti-industriale. Certo, non tutto il Sud è così, c’è anche un Sud dinamico che, fra mille difficoltà, cerca di restare agganciato al carro della modernità europea. Ma è in minoranza. Il Mezzogiorno risente oggi dell’eclisse di quel meridionalismo che, dalla unità d’Italia fino a qualche decennio fa, aveva impegnato energie e cervelli nello sforzo di mettere fine a una storica arretratezza. Quel movimento di pensiero e di azione, grazie al quale fu possibile realizzare cose positive nel Mezzogiorno, oggi non esiste più. Da qui la formazione di una coalizione sociale e politica nemica dell’economia di mercato, che vuole la statalizzazione più o meno integrale di tutto, e che chiede di ridare slancio ai vecchi sistemi assistenziali. L’idea è questa: «Il Nord ci ha sempre sfruttato, ora deve mantenerci». Spiegare i 5 Stelle non è difficile: variante italiana del peronismo, sono i rappresentanti di un Mezzogiorno che chiede più Stato e più sussidi.
Il caso della Lega è più complicato. Per inciso, non ci si faccia fuorviare dai sondaggi (che le danno oggi più consensi che ai 5 Stelle). Tra le «intenzioni di voto» e i voti c’è di mezzo il mare. La Lega è in crescita ma di quanto lo è lo sapremo solo quando si voterà.
La Lega è più difficile da inquadrare dei 5 Stelle. Rappresenta una parte del Nord produttivo (anche se non soltanto quello produttivo: vedi il no alla legge Fornero), con le sue esigenze comunque opposte a quelle del Sud pentastellato: un Nord che chiede riduzione delle tasse, meno burocrazia, sostegno alle grandi opere, più sicurezza per effetto di politiche dell’immigrazione non lassiste. Ma la Lega ha anche posizioni che, apparentemente, non sono coerenti con il suo insediamento sociale: si pensi al putinismo o all’antieuropeismo spinto fino al rischio di farci scivolare fuori dall’eurozona. A conferma del fatto che le posizioni politiche non sono mai il meccanico riflesso di interessi economici.
Il governo dura perché la condivisione del potere è un fattore di stabilità. E perché, almeno se e fin quando la situazione economica non precipiterà, i compromessi sulla spartizione delle risorse (e posti) fra nordisti e sudisti, funzionano con la soddisfazione di entrambi. Ma arriverà un giorno in cui i compromessi non saranno più possibili. Allora il governo cadrà. E la divisione Nord/Sud, probabilmente, ci esploderà in faccia.