Re: Media e dintorni

maryella

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Re: Media e dintorni

LA MOBILE OPINIONE
DI MAESTRINE E CORTIGIANI


Fino a un nanosecondo fa, Renzi era un fenomeno, uno scienziato, un cervellone, uno statista, un dono del cielo disceso sulla terra per tutto cambiare, tutto rottamare, tutto sfolgorare.
Uno fuori dagli schemi, anzi, uno che gli schemi li rompeva e inventava paradigmi, dettava la linea, stabiliva l’agenda, sparigliava le carte, infondeva sana e vigorosa e strafottente energia giovanile dentro il corpaccione molle, flaccido e corrotto della politica politicante di questa rancida repubblica delle banane. E come eravamo tutti lì, salvo rare eccezioni, noi pennivendoli di regime, a plaudire e osannare e celebrare e interpretare le gesta di tanto eroe, personificazione duepuntozero del Principe machiavellico e quanto ci inebriavamo a pensare e a ponzare e a grattarci la pera e scimmiottare e piroettare e pigolare e squittire e mugolare in ginocchio durante le sue inimitabili conferenze stampa crocevia tra McLuhan, Gassman e Fidel Castro. E quanto è bravo questo e quanto è diverso e quanto è fascinoso e quali e quante cose sarà capace di fare per noi italiani da così tanto tempo privati della speranza e del futuro dalle luride nomenclature dei partiti tradizionali. E, quindi, evviva il Renzi pensiero, evviva il Renzi system, evviva il Renzi style.
Adesso, è diventato un ********. Se dovessero andargli male pure i ballottaggi, manca un niente che il primo ubriaco appena uscito dalla fiaschetteria dopo la partita lo prenda a gatti morti in faccia. E noi, sempre noi, quelli che nel suo stato nascente pendevamo dalla sue labbra, dalla sua boccuccia da furbo di Boccaccio e gorgogliavamo a ogni battuta, tic o birignao dell’unto del Signore, adesso passiamo le giornate, come tricoteuse sferruzzanti, a sentenziare e decretare e trombonare su quanto è stanco e quanto è loffio e, insomma, sempre le solite cose, sempre le solite palle, sempre con ‘sti benedetti ottanta euro e non è a questo modo che si investono le risorse pubbliche e non doveva fare così perché invece doveva fare cosà e non doveva allearsi con questo ma invece con quello e noi glielo avevamo detto e noi lo avevamo avvertito e noi avevamo inutilmente suggerito. Tutto vero. Basta leggere o ascoltare.
Ma la domanda, la vera domanda che, come diceva quello là, a questo punto sorge spontanea dall’inaspettato declino dell’impero renziano, non è tanto cogliere con stupefacente stupore stupefatto con quale rapidità le leadership in Italia si brucino una dietro l’altra senza che mai nulla cambi dell’assetto fanghiglioso e purulento su cui si regge il nostro grottesco baraccone, quanto invece come - inspiegabilmente - la corte dei soloni, dei consiliori, dei grandi analisti e opinionisti sia sempre la stessa. Sembra il palco del Politburo durante la sfilata delle forze armate a Mosca. Sempre gli stessi, sempre i soliti, sempre quelli: mancano solo Cernenko, Andropov e un gruzzolo di copeche del vecchio conio e il quadro sarebbe perfetto. E sempre a dire le stesse cose. Anzi, sempre a seguire lo stesso schema.
Arriva Monti, tutti giù sdraiati sotto il loden di Monti salvo poi, giusto un paio di anni dopo, metterlo in mezzo nel gioco dello schiaffo del soldato. Arriva Letta, tutti giù sdraiati sotto gli occhialini accademici di Letta, che se lo incrociano adesso in un boulevard di Parigi, cambiano strada e si toccano pure i gioielli di famiglia. Arriva Renzi, tutti giù sdraiati sotto i soliloqui di Renzi e ora invece basta un Civati qualsiasi dall’alto del suo zerovirgolauno a impartirgli lezioni di geopolitica. Che categoria meravigliosa.
Ma con Berlusconi sta andando pure peggio. Perché adesso, adesso che il cinghialone è caduto e rischia addirittura di lasciarci la buccia, è partita l’operazione del pietismo peloso, del rispetto fariseo al terminale, della riabilitazione postuma e quindi generosa, perché, insomma, il cavaliere era quello che era però a quest’ora avrebbe già vinto un paio di Champions, messo a posto la Merkel con una barzelletta delle sue e promesso un paio di milioni di posti di lavoro. Che sagace, inimitabile, pittoresco personaggio era Berlusconi, lo lasci dire a me, caro lei. E questo dopo aver usato qualsiasi strumento, ma davvero qualsiasi, comprese le peggio porcate paragiudiziarie e le peggio violazioni della privacy e del segreto d’ufficio, che fanno inorridire se infilzano qualche professorino da terrazza radical chic ma che invece erano del tutto opportune, anzi, doverose se servivano a scardinare le sue malefatte D’altra parte, non si è maestri di doppia morale per niente.
E diventa ancora più maramaldo andare a sfrigolare il coltello nella piaga dello sbando ottosettembrino che in questi giorni sta travolgendo quel che resta di Forza Italia. E che, come in ogni partito dove il leader è tutto e il resto è niente, ci fa assistere allo spettacolo grottesco delle salmerie, dei servi, delle sciampiste, dei traffichini in fuga da Caporetto con un’esibizione di squallore non solo politico ma anche etico e fisiognomico - da queste parti ce ne sono due o tre che sembrano usciti da una sceneggiatura di Flaiano - che è forse la vera responsabilità storica che si può imputare a Berlusconi. Non aver mai costruito una classe dirigente ed essersi invece scientemente circondato di signorsì.
Il problema vero e, di conseguenza, la vera sfida non è tanto il susseguirsi di presidenti del consiglio più o meno fugaci o più o meno capaci, ma quello di un sistema della comunicazione un po’ più serio e un po’ meno conformista.
D’altronde, politica e giornalismo non potranno mai essere, almeno da noi, due cose diverse, perché nascono dallo stesso ceppo e germogliano dalla stessa schiatta, che attiene molto alla conquista e alla gestione del potere e molto meno alla libera partecipazione politica e alla libera informazione dei cittadini. Ma questa è solo accademia, in questo paese di sepolcri imbiancati.
Diego Minonzio
 
11 settembre è oggi. Restiamo uniti per la libertà e contro il terrore


Diciassette anni dopo ricordiamo l’attacco alle Torri Gemelle. Un evento che non solo ha segnato indelebilmente il nostro immaginario ma che ha dato prova dell’incubo terrorista. Quell’11 settembre 20o1 morirono quasi tremila persone, ma ad essere colpito fu l’intero Occidente che infatti rispose unanimemente.
La scoperta della vulnerabilità ci rese forti così come oggi la consapevolezza della nostra forza ci rende fragili. Molte generazioni ormai non hanno memoria diretta del 9/11 e la polarizzazione dei dibattiti politici interni offusca i valori che uniscono l’Occidente. La retorica del declino prevale in larghi strati intellettuali negli Usa e in Europa. Abbiamo saputo reagire al terrore ma sembriamo incapaci di rispondere con la stessa coralità alla minaccia della paura.
Diciassette anni fa comprendemmo che l’attacco era rivolto ai principi della nostra civiltà. Libertà e democrazia sono i capisaldi della nostra identità, le nostre Torri Gemelle. Dobbiamo difenderli dai numerosi tentativi di dirottamento. Ad attentare alla nostra cultura non ci sono solo i figli e i nipoti di Bin Laden ma anche gruppi che agiscono in modo più subdolo e che utilizzano la rete ed i social media per minare il nostro modello di convivenza civile.
Non è un ritorno alla Guerra Fredda ma qualcosa di più, e più grave. Un virus letale è stato iniettato nelle nostre democrazie. C’è chi vorrebbe piegare il primato della libertà che ci ha reso forti. La memoria dell’11 settembre non è un esercizio vano. Abbiamo la fortuna di poterci dividere anche aspramente sulle scelte politiche, da quelle globali a quelle più locali. Abbiamo il privilegio di poter esprimere sempre le nostre opinioni, di poterci cimentare in una attività libera. Sono conquiste che non possiamo e non dobbiamo dare per scontate.
L’amicizia con gli Stati Uniti, la solidarietà europea, l’Alleanza atlantica non sono cimeli del passato. Sono la garanzia del nostro futuro. L’11 settembre è oggi. È ogni giorno. È la libertà contro il terrore e la paura.
 
La sindrome dell’assedio
per velare le difficoltà


La strategia dell’esecutivo per cavalcare le polemiche e rafforzare l’intesa

di Massimo Franco

La strategia che emerge ogni giorno di più è quella del «tanti nemici, tanto onore». Si tratti dei mercati finanziari, dell’Unione europea, dell’Onu, della magistratura, perfino dei giornali, Movimento Cinque Stelle e Lega sono pronti a puntare il dito accusatore. In parte, è il riflesso naturale di una maggioranza inedita, che si trova a governare per la prima volta e teme l’accerchiamento. In parte, dipende dall’inconsistenza delle opposizioni parlamentari e dunque dall’esigenza di trovare e nel caso inventarsi comunque dei nemici.

Il risultato è che alle ostilità reali si sommano quelle temute o sperate: perché la sindrome dell’assedio è funzionale al mantenimento dell’intesa tra due forze eterogenee e con agende contraddittorie. In qualche modo, lo ha ammesso candidamente il vicepremier e ministro dei Cinque Stelle, Luigi Di Maio: più ci attaccano più sento di essere nel giusto. E lo stesso, in fondo, vale per Matteo Salvini, l’altro vice e referente del premier Giuseppe Conte. L’Onu che inopinatamente promette di mandare qualcuno a misurare il razzismo italiano, regala al capo della Lega un nuovo argomento elettorale: minacciando subito un taglio dei fondi all’Organizzazione.

Bisogna dire che Salvini è più abile a cavalcare queste occasioni polemiche. Lo scontro con i giudici che lo accusano di sequestro di migranti e requisiscono i conti della Lega per la truffa della gestione di Umberto Bossi, gli permette di vestire i panni della vittima: anche se iperaggressiva. E soprattutto, mette in ombra le ambiguità di una strategia che punta a ridurre gli arrivi attraverso il Mediterraneo; ma in parallelo punta a un asse antieuropeo con alcuni Paesi dell’Est che sono i primi a rifiutare di prendersi anche un solo migrante presente in Italia.

Quanto all’attacco arrivato ieri da Michelle Bachelet, ex presidente cilena, per conto delle Nazioni Unite, il ministro dell’Interno e vicepremier ha giustamente risposto che l’Italia non prende lezioni. E si è vantato dei 700 mila migranti arrivati e accolti negli anni scorsi, senza nessun aiuto da parte dell’Europa. Osservazione sacrosanta, sebbene paradossale, fatta da lui: a accoglierli sono stati i governi di partiti oggi all’opposizione, e sconfitti il 4 marzo da Lega e M5S anche esagerando sull’immigrazione clandestina.

L’autodifesa di Di Maio si mostra meno efficace. Un po’ perché tocca temi altrettanto divisivi ma più controversi, come l’accordo sull’Ilva di Taranto o la chiusura dei negozi alla domenica. Un po’ perché deve fare i conti con una minoranza «di sinistra» dei Cinque Stelle, che lo punzecchia sul patto con la Lega. Risultato: il vicepremier non trova di meglio che ipotizzare una legge contro le proprietà «impure» dei giornali e prendersela con i cronisti «in malafede». La sua fortuna è che anche l’ex segretario del Pd, Matteo Renzi, minaccia di querelare i giornalisti che pubblicherebbero notizie false su di lui: assist involontario al governo, che potrà dire di non essere il solo a pensarla così.
10 settembre 2018
 
STATI, GOVERNO, QUAL'E' IL MIGLIORE

dal "Dizionario filosofico di Voltaire

Fino ad oggi non ho mai conosciuto nessuno che non avesse governato uno Stato. Io non parlo dei sigg. ministri, che governano in effetto, chi per due o tre anni, chi per sei mesi o per sei settimane: parlo di tutti gli altri uomini che, a cena o chiacchierando nel loro studio, sviluppano il loro sistema di governo, riformano la Guerra, la Giustizia, la Chiesa e la Finanza [...].
I vantaggi e gli svantaggi di tutte le forme di governo sono stati esaminati assai accuratamente in questi ultimi tempi. Ditemi un po', voi, uomo istruito, che avrete viaggiato e visto molti paesi, in quale Stato, sotto che tipo di governo vorreste essere nato? io mi figuro che un gran proprietario terriero francese non sarebbe scontento d'esser nato in Germania, perché là si troverebbe principe invece d'esser suddito. E così un Pari di Francia sarebbe molto contento di godere i privilegi dei Pari d'Inghilterra: là potrebbe legiferare; mentre il magistrato e il finanziere preferrebbero la Francia agli altri paesi.
Ma qual patria sceglierà, potendolo, un uomo savio, libero, di giusta agiatezza, e senza pregiudizi? Una volta un membro della Reggenza di Pondichèry, piuttosto colto, tornava in Europa con un bramino, più istruito di quel che siano di solito i bramini. "Come trovate il governo del Gran Mogol?" disse il consigliere. "Abominevole" rispose il bramino. "Come volete che uno Stato possa esser ben governato da un tartaro? I nostri rajà, i nostri nababbi, per parte loro ne sono contentissimi; ma i loro cittadini no certo, e l'opinione di qualche milione di cittadini conterà pur qualcosa."
Il consigliere e il bramino attraversarono così ragionando tutta l'Asia antica. "Voglio notare una cosa" disse il bramino: "che non ce una sola repubblica in tutta questa parte del mondo, che è pur grande". "C'è stata una volta la Repubblica di Tiro," disse il consigliere, "ma non è durata molto. Ce n'era anche un'altra, dalle parti dell'Arabia Petrea, in un piccolo angolo chiamato Palestina" [...].
"Capisco," disse il bramino, "come sulla Terra si trovino assai poche repubbliche. Gli uomini sono ben dirado degni di governarsi da soli. Questa fortuna non può toccare se non a certi piccoli popoli, appartati in qualche isola o fra le montagne, come i conigli che si tengono nascosti dagli animali carnivori; ma alla lunga sono scoperti e divorati". Quando i due viaggiatori furono arrivati in Asia Minore, il consigliere disse al bramino:
"Credereste voi che c'è stata una repubblica, fondata in una piccola regione d'Italia, che ha durato più di cinquecento anni, e che ha posseduto questa Asia Minore, un altro bel pezzo d'Asia, l'Africa, la Grecia, e le Gallie, e la Spagna, oltre a tutta l'Italia?". "Essa dové trasformarsi assai presto in monarchia" rispose il bramino. "L'avete indovinata" disse l'altro. "Ma poi quella monarchia è caduta, e noi facciamo ogni dì le più belle dissertazioni per trovare le cause della sua decadenza e della sua fine." "Vi affaticate molto per nulla," disse l'indiano: "quell'impero è caduto perché prima esisteva. Bisogna pur che tutto finisca; e io ho ferma speranza che capiterà lo stesso all'impero del Gran Mogol". "A proposito," disse l'europeo, "vi sembra vero che sia più necessario l'onore sotto un re dispotico, o più necessaria la virtù in una repubblica?". L'indiano, dopo di essersi fatto spiegare che cosa significa onore, rispose che l'onore era più necessario in una repubblica, e che c'era molto bisogno di virtù in uno stato monarchico. "Perché" diceva "un uomo che pretende di farsi eleggere dal popolo, non ci riuscirà se è disonorato; mentre in Corte potrà facilmente ottenere una carica, secondo quella sentenza di un gran principe, che un cortigiano, per far strada, non deve avere né onore né carattere. E in quanto alla virtù, ce ne vuol parecchia, con un principe dispotico, per avere il coraggio di dire la verità. Ma d'altronde l'uomo virtuoso si trova molto meglio in una repubblica, dove non è obbligato ad adular nessuno" [...].
"Già. Ma sentite: in quale Stato, sotto quale governo preferireste vivere?" disse il consigliere. "In qualunque altro paese che non fosse il mio" rispose pronto il suo compagno. "E ho già trovato molti siamesi, tonchinesi, persiani, turchi, che dicevano la stessa cosa." "Va bene," disse l'europeo, "ma insomma, quale tipo di Stato scegliereste?". "Quello dove si obbedisce soltanto alle leggi" rispose il bramino. "È una risposta vecchia" disse il consigliere. "Vecchia ma sempre buona" ribatté l'altro. "Ma dove sarà questo paese?" disse il consigliere. Il bramino rispose: "Bisognerebbe cercarlo".

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Siamo nella seconda metà del 1700, certi discorsi si adattano ai tempi ma fondamentalmente c'è sempre qualcosa che li accomuna a quelli di oggi....
 
11 settembre è oggi. Restiamo uniti per la libertà e contro il terrore


Diciassette anni dopo ricordiamo l’attacco alle Torri Gemelle. Un evento che non solo ha segnato indelebilmente il nostro immaginario ma che ha dato prova dell’incubo terrorista. Quell’11 settembre 20o1 morirono quasi tremila persone, ma ad essere colpito fu l’intero Occidente che infatti rispose unanimemente.
La scoperta della vulnerabilità ci rese forti così come oggi la consapevolezza della nostra forza ci rende fragili. Molte generazioni ormai non hanno memoria diretta del 9/11 e la polarizzazione dei dibattiti politici interni offusca i valori che uniscono l’Occidente. La retorica del declino prevale in larghi strati intellettuali negli Usa e in Europa. Abbiamo saputo reagire al terrore ma sembriamo incapaci di rispondere con la stessa coralità alla minaccia della paura.
Diciassette anni fa comprendemmo che l’attacco era rivolto ai principi della nostra civiltà. Libertà e democrazia sono i capisaldi della nostra identità, le nostre Torri Gemelle. Dobbiamo difenderli dai numerosi tentativi di dirottamento. Ad attentare alla nostra cultura non ci sono solo i figli e i nipoti di Bin Laden ma anche gruppi che agiscono in modo più subdolo e che utilizzano la rete ed i social media per minare il nostro modello di convivenza civile.
Non è un ritorno alla Guerra Fredda ma qualcosa di più, e più grave. Un virus letale è stato iniettato nelle nostre democrazie. C’è chi vorrebbe piegare il primato della libertà che ci ha reso forti. La memoria dell’11 settembre non è un esercizio vano. Abbiamo la fortuna di poterci dividere anche aspramente sulle scelte politiche, da quelle globali a quelle più locali. Abbiamo il privilegio di poter esprimere sempre le nostre opinioni, di poterci cimentare in una attività libera. Sono conquiste che non possiamo e non dobbiamo dare per scontate.
L’amicizia con gli Stati Uniti, la solidarietà europea, l’Alleanza atlantica non sono cimeli del passato. Sono la garanzia del nostro futuro. L’11 settembre è oggi. È ogni giorno. È la libertà contro il terrore e la paura.
Lo scienziato Renzi,l'unico che non lo ha mai cgato è stato Bersani che invece si è accorto del grillismo!!
 
[Certo che dopo aver letto questo articolo di Feltri se dovessi trovarmi per caso anche su un
un "ponticello" incrocerei subito le dita........)


Ponte Morandi, Vittorio Feltri: "Quelle due volte che Sanculo mi ha salvato la vita"

20 Agosto 2018

Non ho mai avuto confidenza con i grattacieli e con i ponti, soprattutto questi ultimi mi sembrano dei mostri, quali in effetti sono.
Una volta in Spagna, al confine col Portogallo, su uno di essi si formò una lunga fila di veicoli.
Al di sotto scorreva un fiume grigio come il piombo. Chiuso in macchina, ebbi una crisi di panico che mi rese ottuso: scesi, lasciando al volante l' autista, corsi veloce quanto un centometrista fino a raggiungere la terra davvero ferma. Pur rendendomi conto di essere stato ridicolo, mi sentii sollevato. Ma questo è niente rispetto a ciò che mi era accaduto sul calare degli anni Settanta.
Abitavo presso Treviglio, in una cascina, e ogni giorno con la mia Citroën Ds mi recavo a Milano per lavorare nella redazione politica del Corriere della Sera.
Pertanto mi toccava attraversare il fiume Brembo, ovviamente non a nuoto, ma servendomi del ponte di Brembate. Era marzo, tempo di disgelo. Imboccai la strada e sulla prima arcata ebbi la sensazione netta di essere sprofondato alcuni centimetri. Pensai: «Ostia qui va giù tutto!». Invece, con mio grande sollievo, non s' infossò un bel niente e ripresi sereno il mio viaggio.
Verso le ore 23, esauriti i miei compiti, mi diressi alla volta di casa percorrendo il solito iter. E arrivai a Brembate, in prossimità del ponte che mi era parso traballante. Dovetti frenare di colpo, davanti a una pattuglia della polizia che agitava palette rosse. Il viadotto era appena crollato. Una vettura con quattro giovani a bordo era stata inghiottita dalle acque burrascose. Tutti morti.
Mi tremarono le ginocchia e le budella. Feci una inversione di marcia e transitai su un manufatto romano stretto ma in piedi da un paio di millenni, insensibile ai pesi che sopportava da sempre, costantemente indenne. I terroni capitolini erano più bravi a costruire che non gli ingegneri moderni.
Ebbi inoltre la certezza di essere stato protetto da Sanculo, senza il quale non sarei scampato.
Altra culattata. Era il 1988.
Il Corriere mi inviò in Corea per raccontare i contorni delle Olimpiadi. Ogni mattina seguivo un evento e lo descrivevo. Nel mezzo di Seul scorre un fiume dall' ampio letto e di color fango. Per raggiungere lo stadio dove si svolgevano alcuni giochi era indispensabile prendere un taxi o l' autobus. E si trattava di passare su un lungo ponte che mi sembrò subito poco affidabile. Il senso del dovere mi costrinse a sorvolare sui miei timori e scelsi il mezzo pubblico per risparmiare. Durante il tragitto ebbi una sorta di illuminazione: «Questa passerella del cavolo la dura no, la dura minga, non dura». Poi accantonai il sinistro presagio dandomi del *****. Le Olimpiadi si chiusero e feci ritorno a Milano. Per alcune settimane detti una occhiata ai giornali, anche stranieri, per sapere cosa succedesse in Corea dove avevo soggiornato oltre un mese. Fui attratto da una notizia. Quel ponte che mi aveva insospettito e atterrito si era sbriciolato e il mio bus era affondato: oltre 40 morti. Un brivido mi paralizzò e ringraziai di nuovo Sanculo. Mi sono così convinto che l' istinto è assai più saggio del nostro cervello. Ci avverte dei pericoli che ci minacciano.
Ieri ero a Cortina d' Ampezzo. Lassù, sotto le Dolomiti, all' Hotel Miramonti, il più bello del mondo, venerdì sera avevo tenuto non dico una conferenza bensì una chiacchierata parlando del più e del meno. E l' indomani, dopo aver letto dei rischi che corrono i manufatti in cemento, mi sono infilato in macchina allo scopo di ricondurmi dalle mie parti.
Non avete idea del numero di viadotti su cui sono transitato col cuore in gola. Almeno trenta. Tutti issati ad alta quota e spaventosamente galleggianti nel vuoto. Nonostante l' abitacolo fosse fresco grazie all' aria condizionata, ho sudato peggio di un suino. Che angoscia, cari lettori! Non avrò pace nemmeno quando sull' autostrada Milano-Bergamo sarò obbligato a superare le forche caudine di Trezzo, un coso poco rassicurante che collega le due sponde dell' Adda.
Forse è giunto il momento che io vada all' ospizio.
Dopo la tragedia di Genova non ci si può più spostare da una località all' altra. Non ci hanno rovinato soltanto la vita, ma anche il piacere di vagabondare.

di Vittorio Feltri
 
Esperto sul pericolo di crollo per i ponti in calcestruzzo: 'Non durano in eterno'
Il calcestruzzo si corrode in tutti i ponti italiani costruiti come il viadotto di Genova.

Dopo il crollo del Ponte Morandi di Genova sono stati intervistati alcuni esperti del settore, tra cui Settimo Martinello, direttore generale di 4 Emme, la società di Bolzano che cura i controlli ed il monitoraggio di 50 mila ponti italiani. Secondo Martinello la situazione è molto critica e se non si interviene velocemente e con le adeguate misure i ponti crolleranno. Non ha detto che sono a rischio crollo ma ha affermato che è sicuro che crolleranno tutti. Le sue affermazioni sono avvalorate dai documenti che spiegano come ogni anno ne crolli circa una ventina, ma solo pochi casi giungono alla ribalta della cronaca, perché fortunatamente alcune strutture sono piccole e non causano vittime.
I dati sciorinati dal direttore della 4 Emme provengono dal monitoraggio annuale della situazione ponti italiani , di cui l'azienda bolzanese ne controlla ben 50mila. Il Ponte Morandi non faceva parte della gestione di Martinello perché è gestito da Autostrade per l'Italia e, aggiunge il direttore, di solito l'azienda fa le cose per bene quando si tratta di controllare le strutture. Aggiunge però che il fatto che il ponte crollato avesse dei problemi strutturali era già noto a tutti.
Perché il calcestruzzo dei ponti cede?
La sinistra previsione di Martinello circa il crollo dei ponti nostrani si basa sul fatto che i ponti italiani sono costruiti in calcestruzzo armato. Come spiega il geologo Mario Tozzi, le strutture edificate nel periodo che va dagli anni '50 agli anni '60 sono ormai arrivate a termine, perché non durano in eterno.
Il loro scheletro è una struttura diacciaio rivestita di calcestruzzo, che serve a proteggere i materiali ferrosi dall’acqua che altrimenti li ossiderebbe in poco tempo. Il calcestruzzo però funziona per alcuni anni, dopo i quali permette l'ingresso dell’umidità che si infiltra e inizia un processo detto carbonatazione, ovvero l'ossidazione e la conseguente corrosione. Le strisce nere che dopo 10 o 15 anni affiorano sul calcestruzzo sono dovute alla fuoriuscita dell'ossido di ferro che causa l'impoverimento dell'armatura.
I ponti da monitorare
Non c'è un vero e proprio censimento dei ponti italiani, nè dei danni che li affliggono ma si parla di un milione e mezzo di strutture da controllare, numero che aumenta a dismisura se per ogni ponte contiamo le singole campate. Solo 60mila di queste strutture sono già sotto osservazione, mentre per gli altri c'è il buio assoluto. L'unico rimedio attualmente applicabile, secondo Martinello, sono le ispezioni, che non sono più obbligatorie dal 1991 con una bene determinata frequenza ma sono da programmarsi a discrezione delle amministrazioni locali.
Inoltre servirebbero 10mila ispettori qualificati e certificati, mentre ne abbiamo a disposizione solo 150.
Il ministro Toninelli ha dichiarato che si dovrebbe intervenire posizionando dei sensori, ma per gli esperti il rimedio è soltanto un palliativo, perché non eviterebbero i crolli ma potrebbero solo avvisare quando il ponte sta cedendo. Infine gli esperti hanno rilasciato alcune dichiarazioni sulle eventuali cause del disastro di Genova, ipotizzando come causa principale la mancata messa in sicurezza del ponte, che, probabilmente, all'interno era completamente vuoto.

BLASTING NEWS
 
CRESCITA DEMOGRAFICA


Mentre l’Europa e molti paesi occidentali sono alle prese con l’invecchiamento demografico, la popolazione mondiale continua a crescere. Il tema non è certo nuovo, ma va affrontato nell’ambito di politiche di sviluppo basate sulla crescita economica.

di Enrico Di Pasquale, Andrea Stuppini e Chiara Tronchin (Fonte: lavoce.info)

Le tappe del dibattito

L’interesse dell’opinione pubblica e degli organismi internazionali per le questioni demografiche non è recente. Produsse un primo risultato tangibile nel lontano 1962, con la decisione delle Nazioni unite di fornire aiuti ai paesi in via di sviluppo desiderosi di attivare politiche denataliste. Nel 1972 fu pubblicato il rapporto “I limiti dello sviluppo” commissionato dal “Club di Roma” al Mit di Boston, che esprimeva grande preoccupazione per la futura crescita demografica mondiale in rapporto alle risorse alimentari e alle dinamiche ambientali.

Nel 1974, proclamato dall’Onu “Anno della popolazione del mondo”, fu convocata a Bucarest la prima conferenza mondiale sul tema, che vide uno scontro tra i paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo, che mal tolleravano politiche demografiche restrittive: al contrario, sostenevano che fosse proprio la dipendenza economico-politica a causare l’eccessivo aumento della popolazione. La conferenza si concluse comunque con una raccomandazione ai paesi più prolifici di diminuire la natalità, almeno di un 5-10 per cento entro un decennio.

Nel 1979 la Cina introdusse per la prima volta la politica del figlio unico, che è durata ininterrottamente per 35 anni, fino al 2014, e che ha contribuito fortemente a rallentare la crescita demografica del paese più popoloso del mondo, pur con una serie di effetti collaterali.

La seconda conferenza dell’Onu (Città del Messico, 1984) fu convocata proprio su pressione dei paesi in via di sviluppo che intendevano affrontare non solo le questioni demografiche in senso stretto, ma anche una serie di problemi sociali (come povertà, crescita indiscriminata, profughi e condizione femminile). Lo sviluppo sociale e l’emancipazione femminile vennero riconosciuti come fattori decisivi nella lotta per il contenimento del tasso di natalità.

La terza conferenza (Il Cairo, 1994) continuò a perorare un rafforzamento del ruolo della donna, ma manifestò posizioni più controverse e per alcuni aspetti inconciliabili sul tema dell’interruzione di gravidanza. Un anno dopo, nel 1995, a Pechino fu convocata una conferenza mondiale specificamente dedicata alla questione femminile.

Popolazione e sviluppo

Nel frattempo, la popolazione mondiale ha continuato a crescere: le previsioni Onu più recenti parlano di 8 miliardi nel 2023 e di quasi 10 miliardi nel 2050. Metà della crescita prevista tra oggi e il 2050 si avrà in Africa, il continente con i maggiori tassi di fertilità e il più basso utilizzo di mezzi di contraccezione, spesso limitati da influenze religiose, tradizioni locali e posizioni ideologiche che ostacolano le politiche di controllo delle nascite.

La popolazione di 26 paesi africani dovrebbe come minimo raddoppiare di qui al 2050. Alcuni esperti temono che il boom demografico africano non solo aggraverà l’attuale flusso migratorio verso l’Europa, ma potrebbe giocare un ruolo nell’attivismo dei gruppi terroristi islamici nella regione del Sahel, che cercano reclute tra i giovanissimi delle famiglie numerose.

Ad aggravare la situazione è arrivata la decisione dell’amministrazione Trump di tagliare i fondi alle Ong che includono gli aborti nelle loro attività. La scelta non è una novità per le amministrazioni repubblicane, ma indebolisce il ruolo del paese finora più impegnato con circa 600 milioni di dollari l’anno di donazioni.

Tra i sostenitori delle politiche di controllo delle nascite rimangono ora prevalentemente l’Unfpa (Fondo Onu per la popolazione), alcuni paesi anglosassoni (Regno Unito, Canada, paesi scandinavi) e istituzioni private come la Fondazione Bill e Melinda Gates.

Una conferenza svoltasi a Londra il 10 e 11 luglio scorsi ha lanciato un allarme significativo: il programma di otto anni (lanciato cinque anni fa) per raggiungere 120 milioni di donne e ragazze entro il 2020 in 69 dei paesi più poveri del mondo, per ora ha coinvolto appena 30 milioni di beneficiari, circa 20 milioni in meno di quanto atteso. L’Unfpa sta già fronteggiando la mancanza di 700 milioni di dollari per contraccettivi, nei prossimi tre anni. Secondo il Guttmacher Institute di New York, il costo per raggiungere i bisogni di tutte le donne che necessitano di moderni metodi contraccettivi nei paesi poveri sarebbe di 1,75 dollari per persona all’anno e produrrebbe un declino del 75 per cento annuo di gravidanze involontarie, di nascite non pianificate e di aborti.

Così, mentre l’Europa fronteggia il problema dell’invecchiamento demografico, alcuni paesi del Sud del mondo continuano a registrare tassi di crescita demografica impressionanti. Nel (confuso e inconcludente) dibattito europeo sulle migrazioni, in cui spesso vengono citati gli aiuti allo sviluppo come strumento per rallentare i flussi, il tema del controllo delle nascite non viene quasi mai citato, nemmeno per ribadire la consapevolezza della difficoltà degli obiettivi da raggiungere.

Lotta alla povertà, cooperazione internazionale e controllo delle nascite vanno invece considerati come aspetti strettamente connessi. E i prossimi decenni saranno decisivi: difficile immaginare politiche di sviluppo e di lotta alla povertà efficaci senza attente (e organiche) politiche di controllo delle nascite.
 
OSSSignur... mancava giusto la Sciura mariella :D
 
visione sconsigliata a persone non vaccinate.....

 
La Sindrome di Gollum e il futuro del Paese: attaccati al potere fino alla fine
Angelo Deiana

“Quand’ero figlio io, comandavano i padri. Ora, che sono padre, comandano i figli. La mia è una generazione che non ha mai contato un *****”
Pino Caruso


C’è una malattia profonda che, in questo momento, attanaglia il sistema Italia: con una metafora impressiva, la potremmo definire la “Sindrome di Gollum”. Come Gollum, il personaggio del “Il Signore degli Anelli”, c’è chi (in particolare i nati tra il 1935 e il 1950) ha trovato il “tesssorro”.
Nel mio ultimo libro, “Rilanciare l’Italia facendo cose semplici” (Giacovelli Editore), emerge chiaramente il trend legato a questa sindrome che caratterizza del nostro Paese. E’ la classe di coloro che sono usciti vivi e vincenti dalla seconda guerra mondiale, hanno cavalcato la ripresa degli anni ’60 e il debito pubblico degli anni ’70 e ‘80, e sono stati e sono ancora uomini di potere economico e politico. E non vogliono andare in pensione (operativamente) perché non vogliono “mollare il tesssoro”.
E’ tutto loro, e non ci sono passaggi generazionali che tengano. E non stiamo parlando solo della politica. I dati dei principali istituti finanziari e di ricerca ci dicono che è dal 2003 che parliamo del passaggio generazionale prossimo venturo, anche a livello imprenditoriale. Peccato che, Caprotti docet, non sia mai accaduto o accada sempre troppo tardi.
Continuano a dire “è tutto mio” e a detenere molti dei gangli di potere e delle imprese che ancora governano questo Paese. Anche perché sono tanti e, fra di loro, ci sono poche donne (il vero fattore rivoluzionario del futuro) a fargli concorrenza. Il problema è che sono bravi ma guardano il futuro con gli occhiali del passato e, per questo, fanno fatica a capire il cambiamento.
Un cambiamento che, come dimostrano una molteplicità di eventi a livello globale (le spinte sovraniste, Trump, la Brexit, i dazi, la Cina, le due Coree, eccetera), esercitano una pressione che va considerata come un vero e proprio cambiamento di ottica strategica dove strumenti prima non esistenti (la Rete e i social network) contribuiscono a compensare quelle asimmetrie informative che assicuravano in passato la stabilità del potere delle élite.
Di colpo invece quella che potremmo chiamare la “Power generation” si è trovata in un mondo nuovo che, pur essendo potente e competente, non riesce più a comprendere e intercettare. Anche perché, mediamente, non sta abbastanza sui social ed è ancorata a modelli (per quanto efficaci) di pensiero lento in un sistema che vive come troppo veloce.
A fortificare la sensazione di potenza e di intramontabilità ci hanno pensato la chimica e gli sviluppi sul benessere. Non a caso studi inglesi e americani la chiamano anche, non senza malizia, “Viagra Generation”.
Ma, se vogliamo andare avanti per rilanciare l’Italia, la strada obbligata è una sola: qualcuno dovrebbe fare uno sforzo di generosità e fiducia anche in termini di passaggio generazionale. Qualcuno, con il massimo rispetto possibile, dovrebbe fare un passo indietro e magari proporsi come mentore o consigliere “diversamente giovane” per aiutare tutti gli altri a rilanciare il Paese.
 
Ciao Frank sempre gentile ! grazie per il sostegno, a dirti il vero mi sento
meglio di là.....
buona giornata!
 
et voilà!! al solito "se ATENE piange SPARTA non ride!

Lettera aperta al Presidente Macron
DI MICHEL ONFRAY

Nella tradizione letteraria dei pamphlets e della satira politica, il filosofo e saggista francese Michel Onfray reagisce alla nomina di Philippe Besson, amico della coppia Macron, a console di Francia a Los Angeles

Vostra Altezza,
Vostra Eccellenza,
Vostra Serenità,
Mio caro Manu,
Mio Re,

La stampa ha da poco riferito che tu hai nominato un mascalzone per rappresentare la nazione a Los Angeles. E unico titolo di nobiltà dipolmatica, dicono le male lingue, i gelosi e gli invidiosi, sarebbe un libro agiografico sulla tua campagna presidenziale. Al di fuori di questo fatto d’armi tanto poco noto, che nessuno ne conosce il titolo, la tua penna è una di quelle che si trovano nelle parti meno nobili della professione: il coccige, poiché è quella che manifesta più sovente il carattere inerente alla comunicazione istituzionale: la prosternazione. Da Sartre a BHL presso Sarko (dopo Mao), da Aragon a André Glucskmann presso lo stesso Sarko (anche lui dopo Mao), da Drieu de La Rochelle a Sollers presso Balladur (parimenti dopo Mao), da Brassilach a Kristeva presso il Bulgaro Jivkov (anche lei dopo Mao), gli ultimi cento anni ne hanno visti di scrivani dotati…per la genuflessione politica!
Philippe Besson rientra in questa vecchia categoria dei valletti di penna, ma sappiamo ormai in che tipo di piumaggio risulti rilevante questo giovane uomo. Questo tipo di penna non è quello dei più talentuosi ma quello dei più venduti – io parlo dell’uomo, non dell’autore.
Manu, possiamo comprendere che, tu che ami le lettere, abbia voglia delle moine provenienti dagli scrittori che segneranno più direttamente il secolo e di entrare nell’Empireo quando sarai ridivenuto banchiere. Ma se questo secolo deve essere segnato da te, non sarà un grande peccato se sarà segnato anche da Besson il piccolo (da non confondere con Besson il Grande, lo scrittore, Patrick, né con Besson campionessa di atletica, Colette, o anche con Eric, il traditore passato da Ségolène a Sarkozy in piena campagna presidenziale, o infine con il Minimeo, Luc).
Prima di essere un lacché, Besson il Piccolo è stato direttore delle risorse umane presso Laurence Parisot, presidente di MEDEF (confindustria francese), ma anche autore di sceneggiature per serie televisive, quindi Cavaliere delle Arti e delle Lettere. Ne conveniamo, tutto questo legittima l’affermazione di Arlette Chabot, che faceva editorialismo politico in televisione quando questa era ancora in bianco e nero ed aveva un solo canale. Coraggiosa, audace, resistente, ribelle, indomita, Arlette non ha paura di affermare su uno dei media che la stipendiano, che tutto ciò era abituale: Napoleone non aveva nominato Chateaubriand ai suoi tempi, e De Gaulle Romain Gary? In effetti, in effetti…Arlette, cara Arlette, voi che avete già i gradi di cavaliere e poi di ufficiale della legion d’onore, vi prometto al più presto il conferimento di un grado ancora superiore! Se non è già stato fatto, poiché voi meritate il vostro giro di Servetta, sarete presto anche invitata alla tavola del nostro grande Mufti in compagnia del giornalista di costume Stéphane Bern e dei fratelli Bogdanov, gli eminenti membri corrispondenti della NASA francese [personaggi di costume accidentalmente dediti a fisica e matematica] .
Vostra eccellenza, Vostra Serenità, mio Re, vostra Altezza, mio caro Manu, è comunque stato necessario, affinché questa assegnazione di comprimari avesse luogo, che tu prendessi la decisione di un decreto di modifica delle regole di nomina del personale diplomatico in modo che non sia più il Quay d’Orsay [per metonimia, il Ministero degli Esteri] a giocare le sue carte, ma piuttosto il governo, cioè in definitiva, tu stesso, come tutti sanno. E’ questo che le lingue biforcute stanno insinuando sul Principe…Il decreto ti permette di ricompensare personaggi estranei alla schiera dei funzionari, purchè con il requisito di essere stati sufficientemente servili. Bern ambasciatore presso la primcipessa Sissi o i Bogdanov nominati per la stessa funzione su Marte, grazie a te, è ormai diventato possibile… La Francia è “great again”!
Ho appreso che allo stesso tempo, tu avevi reso possibile quest’altro fatto, proprio come un Principe: madame Agnès Saal è stata nominata mediante un provvedimento pubblicato sulla gazzetta officiale “alto funzionario all’uguaglianza, alla diversità ed alla prevenzione delle dicriminazioni presso il segretariato generale del Ministero della Cultura” . Proprio un bel posto, ed in più così morale! Un bel balocco emblematico del politicamente corretto della nostra epoca.
Ricordiamo un po’ il CV della felice eletta che tu gratifichi a sua volta. Questa signora si era fatta conoscere per i suoi dispendiosi conti per il taxi, più di 40.000 euro perbacco, ed in gran parte a beneficio dei suoi figli, quando lei era direttrice generale del centro Pompidou e presidente dell’INA, un istituto che tu conosci molto bene, non è vero? Per le sue malversazioni, sempre lei era stata condannata a sei mesi di sospensione senza retribuzione (probabilmente secondo i principi di quella che ormai possiamo chiamare giurisprudenza Benalla…), ed in seguito a tre mesi di reclusione con il beneficio della condizionale ed una doppia ammenda. Era stata reintegrata alla chetichella presso il ministero della Cultura nell’estate 2016 (occorre sempre fare attenzione alle nomine estive…) con l’incarico di una missione presso il segretariato generale, in vista della finalizzazione della certificazione AFNOR su ugaglianza professionale e diversità.
Precisiamo anche questo: secondo Mediapart, la stessa signora Saal, decisamente ben ricompensata – ci si domanda il perché – figurava parimenti “nella lista molto ristretta degli alti funzionari che con un provvedimento del 3 agosto 2018 firmato dal Primo Ministro , sono stati iscritti a far data dal 1 gennaio 2018”, quindi retroattivamente, “al tavolo di avanzamento al livello speciale di grande amministratore generale”. Ciò, in altri termini, vuol dire che, durante le vacanze del Re a Brégançon, questa procedura, che non risulta da un tradizionale avanzamento ma da una espressa volontà politica, ha permesso alla citata signora un innalzamento del suo trattamento fino a 6138 euro mensili, indennità di residenza a Parigi compresa, e fino a un totale di 74000 euro annualI di retribuzione. C’è da aggiungere un supplemento sotto forma di indennità che aumenta la sua pensione di funzionaria di circa il 10%. Quando tu vuoi bene a qualcuno, mio caro Manu, non è cosa da niente, e non passa inosservato!
Françoise Nyssen, ricordiamolo per i milioni di Francesi che ancora lo ignorano, è ministro della Cultra. E’ lei che ha messo in musica la melodia che il Presidente ha sussurrato al suo orecchio. A fronte dello scatenarsi degli animi che questa nomina ha giustamente suscitato, lei fa sapere questo sulle reti social: “Ho nominato Mme Agnès Saal [S.A.A.L., faccio lo spelling, per evitare errori di ortografia…] alto funzionario per l’uguaglianza e la diversità. Ho fatto di questa causa una priorità fin dal mio arrivo al Ministero della Cultura. La qualità del suo impegno e del suo lavoro al servizio di questi valori fondamentali dovrebbero orientare oggi i vostri commenti”. Non si comprende però quale sia la “causa” in questione: la signora Saal, o i famosi valori qui presi in ostaggio?
Ma Françoise Nyssen è anche l’editrice che ha scientemente frodato il fisco due volte, non dichiarando dei considerevoli ampliamenti edilizi, una volta ad Arles, presso la sede della sua casa editrice, un’altra volta a Parigi La rivista de Le Canard enchaîné, che ha stanato la lepre, ha calcolato la somma economizzata con questo doppio misfatto! Con questa somma se ne trovano di contributi per gli alloggi agli studenti squattrinati, ti giuro!
Chi si somiglia si piglia. Da quel momento, diventa normale che , sotto la tua autorità, sotto i tuoi ordini, secondo il tuo desiderio, secondo il tuo auspicio, secondo la tua volontà, secondo i tuoi auguri, mio Principe, mio Re, mio grande Mufti, un vice faccia ricompensa ad un altro vice. In poco più di un anno, da Richard Ferrand a Alexandre Benalla, passando per questa signora Saal, tu ci hai abituato a questa evenienza!
Ma tu lo sai, mio caro Manu, che delle cassiere che hanno utilizzato a proprio profitto delle riduzioni di due-tre euro che strappavano dalla propria cassa, o dei dipendenti di grandi magazzini che hanno mangiato un frutto prelevato dagli scaffali, sono stati seccamente licenziati, loro, senza indennità, senza un nascondiglio pagato dai contribuenti e senza possibilità di ritrovare un lavoro ben pagato con i vantaggi di una funzione chiave? Probabilmente una grande e bella automobile con autista…
Ho saputo anche che il tuo così buona mico Benalla si era reso colpevole di graziosi misfatti successivamente a quelli che abbiamo conosciuto l’estate passata. Ma l’incendio è stato carinamente spento, sicuramente non con l’acqua della piscina che ti sei fatto costruire a Brégançonn, non per te, certo che no, ma per altruismo, più sicuramente per i figli del personale della residenza reale!
Sorvegliato a vista, la polizia ha fatto richiesta di perquisire il domicilio del tuo così caro amico Benalla. Voleva in particolare accedere alla sua cassaforte. Tenuti per legge a non entrare nell’appartamento prima dell’ora comunicata dal giudice, i poliziotti hanno apposto dei sigilli la sera e atteso l’indomani. Ma la cassaforte è stata svuotata durante la notte! Nella famiglia Benalla hanno le braccia lunghe poiché dal commissariato si può raggiungere una cassaforte presso la propria abitazione, in piena notte. Le quattro armi che dovevano esserci non c’erano più – che fossero tre pistole ed un fucile, per un uomo che non ha che due sole mani, vuol dire davvero tanto… Sua moglie aveva le chiavi, lui aveva detto che lei si trovava all’estero: si nascondeva infatti nel XVI arrondissement di Parigi. E’ vero che per numerosi francesi questo quartiere di privilegiati equivale proprio ad un paese straniero.
Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, mio Re, Vostra Altezza, mio caro Manu, mi sembra proprio che sia più opportuno fare parte della tua corte che essere un anziano privato della propria pensione, essere un pennivendolo prostrato che uno scrittore in piedi, essere un tecnocrate di sinistra che scrocca nelle casse dello stato per finanziare i trasporti della propria progenitura, piuttosto che uno studente a cui tu rubi dalle tasche cinque euro di contributo per l’alloggio, essere un picchiatore di manifestanti con la fascia della polizia al braccio e l’accreditamento presso l’Eliseo, piuttosto che un sindacalista che difende il diritto del lavoro.
Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, mio Re, Vostra Altezza, mio caro Manu, vorrei tanto che tu mi amassi, e questo per tre ragioni. La prima: per essere nominato senza competenze console delle province delle regioni francesi nel VI arrondissement, oppure nel XVI – tu lo puoi, io lo so, è sufficiente che tu lo voglia; la seconda: per permettere alla mia anziana madre che non ha la patente e che ha 84 anni, di poter disporre gratuitamente di un taxi a ogni ora del giorno e della notte, per andare a fare le sue visite mediche a mezz’ora da casa sua, il tutto pagato con il denaro del contribuente, tu puoi, io lo so, è sufficiente che tu lo voglia; la terza: per tenere in casa mia armi da fuoco in quantità, ma anche e soprattutto, per poter bastonare le persone che non mi piacciono tenendo un casco sulla testa, distribuendo colpi di manganello disponendo di agenti del CRS [corpo con funzioni antisommossa] o della polizia come copertura alle mie uscite da piccolo teppista – tu lo puoi, io lo so, è sufficiente che tu lo voglia.
Per piacere, Vostra Eccellenza, Vostra Serenità, mio Re, Vostra Altezza, mio caro Manu: desidera quello che io ti chiedo. Io ti prometto per questo di prosternarmi, di mostrare le piume del mio deretano ai passanti, di dire del bene di te con articoli, conferenze e libri, te lo giuro, andrò sui canali e le radio del servizio pubblico per certificare, come Arlette Chabot, che tra Napoleone, De Gaulle e te, non c’è nemmeno lo spessore di una cartina da sigaretta, Joffrin non mi riconoscerà nemmeno, mi amerà forse anche lui come un tempo amava Bernard Tapie e Philippe de Villiers. Potrei anche scrivere una biografia di Stéphan Bern con prefazione di Brigitte ex–Trogneux, promuovere una tesi di fisica quantistica che avesse come direttori dei lavori i tuoi amici i fratelli Bogdanov. Potrei anche consacrare un seminario di letteratura comparata all’opera di Philippe Besson che metterò in relazione con quella di James Joyce. Per piacere, tu puoi, tu sei il mio re. Abito in Piazza della Resitenza a Caen, fammi un cenno.

Residente MacroLettera aperta al Preidente Manu, da Michel Onfray


Michel Onfray è un filosofo e saggista francese, autore di più di 80 opere. Fondatore dell’università popolare di Caen, interviene regolarmente nel dibattito pubblico.
Fonte: RT en francais — Actualites internationales
Link: Lettre ouverte au president Manu, par Michel Onfray — RT en francais ... hel-onfray

5.09.2018
 
Prima o poi si può pensare che il problema investa anche l'Italia.....

L'auto elettrica è il futuro? Una bufala per ricchi"

L'economista: settore di nicchia. E per rifornirle di energia servono enormi quantità di gasolio
Rodolfo Parietti –il Giornale

Li chiama «neo naturisti», gente così inebriata dal frinire dei grilli da mal sopportare il rumore molesto del traffico e il logorio della vita moderna.

Un Cynar non basta, ci vuole altro. «Ecco, l'auto elettrica è perfetta per loro, per quelli che vanno in giro in bici, per le donne col tacco 16. È a immagine e somiglianza degli sfaccendati: purché ricchi, sia chiaro». Giulio Sapelli, economista e storico, è come sempre tranchant nei suoi giudizi: senza esitare, fa a pezzi la vulgata corrente secondo cui la quattroruote ecologica sarà un fenomeno di massa del futuro prossimo venturo.

Professore, eppure pile di report stimano una crescita esponenziale delle vendite di auto verdi entro pochi decenni grazie al crollo dei prezzi delle batterie...
«Sono solo grandi bufale: trattasi di un segmento di nicchia, tale - ripeto - da interessare solo la popolazione ricchissima».
Spieghi: problema di costi o problema legato alla difficoltà a fare il pieno di energia ai serbatoi?
«Dico: come fa a essere di massa un'auto che ha bisogno di colonnine ogni 50 chilometri per essere ricaricata?»
L'ad di Enel, Francesco Starace, ha però detto che entro il 2019 sarà pronta la rete di ricarica.
«Di Starace ed Enel non parlo, ma vorrei ricordare che c'è un problema - tutt'altro che marginale - che riguarda la produzione di energia elettrica: non è un derivato da fonti rinnovabili, bensì da gas, gasolio o acqua. E per le auto cosiddette ecologiche occorre produrre enormi quantità di energia, anche in ore di punta».
Il candidato premier M5S, Luigi Di Maio, sostiene però che «il nostro Paese produce più energia di quella che consuma».
«Sovrabbondanza? Ma se importiamo energia da Francia e Svizzera!»
Quindi è d'accordo con Sergio Marchionne, che ha addirittura paventato la distruzione del pianeta se l'elettrica sarà introdotta su scala globale senza sciogliere i nodi legati a come produrre l'energia da fonti pulite e rinnovabili?
«C'è anche un altro problema, ed è quello dello smaltimento delle batterie al litio, veleno puro, peggio del mercurio. Che facciamo, le lanciamo nello spazio come residui nucleari?»
C'è almeno un aspetto positivo nell'auto elettrica?
«Sì, creerà nuova occupazione senza bruciare quella dell'industria automobilistica tradizionale».
Insomma, c'è posto per tutti.
«Sì, e chi la pensa diversamente è affetto da vetero-luddismo. O è portatore di una cultura anti-industrialista che sedimenta anche nell'Europa dei vincoli, dei tetti, dei limiti. Nè le case automobilistiche, nè le major del petrolio, avversano le energie rinnovabili, che sono un business».
Quanto Fca verrà coinvolta nell'elettrico?
«Senza quella fusione con un'altra big che rincorre ormai da 10 anni e che consentirebbe di produrre 6-7 milioni di auto, Fca avrà soprattutto un problema di break-even. Se deciderà di entrare nell'elettrico lo farà non per motivi industriali, ma solo per ragioni borsistiche».
 
l futuro è nel segno dell’auto elettrica: boom di vendite dal 2018

Le statistiche e le previsioni annunciano una grande annata per il motore elettrico: vendite in grande crescita, sempre più modelli sul mercato.

11 aprile 2018 - I dati raccolti e le statistiche prevedono una vendita di oltre 1.6 milioni di vetture con motore elettrico nel 2018 e una massiccia presenza di più di 400 differenti modelli di auto a batteria entro il 2025. La vendita, secondo i ricercatori Frost & Sullivan raggiungerà i 25 milioni di esemplari nel 2025, il 20% del parco auto circolante in tutto il mondo.
Il 2017 ha registrato circa 1.2 milioni di vendite, con una varietà di 165 modelli differenti offerti sul mercato. Oggi ci sono circa 3.3 milioni diauto elettriche in circolazione nel mondo.
Per far fronte a questi pronostici, ovviamente, ci si aspettano grandeimpegno e investimenti corposi nelle infrastrutture dedicate alla ricarica, si pensa che si possa arrivare a investire cifre che si aggirano attorno ai 57 miliardi di dollari entro il 2026; cresce anche il settore delle batterie.
Nell’ultimo rapporto di Frost & Sullivan si sottolinea quanto il mercato della mobilità elettrica sia oggi nelle mani della Cina, con una quota del 48%, a seguire l’Europa con il 26% e il Nord America con il 17,7%.
Il futuro è quindi elettrico e offre opportunità di crescita all’industria manifatturiera e anche a quella delle batterie e delle infrastrutture di ricarica. Lo studio afferma che si registrerà un forte progresso del settore delle batterie allo stato solido, che secondo gli esperti possono arrivare a rendimenti 3 volte superiori rispetto a quelle agli ioni di litio.Anche il mercato delle infrastrutture domestiche per la ricarica di veicoli elettrici registrerà uno sviluppo, con ricavi attesi per 1,1 miliardi di dollari solo in Europa.
Sul mercato ci sono un’ampia gamma di fornitori di accumulatori di nuova generazione; una tra questi è Tesla con la sua Gigafactory che entro la fine del 2018 si prevede possa raggiungere quantità di produzione pari a 50 GWh di batterie.
Oggi la Gigafactory è operativa al 35%, nel momento in cui raggiungerà il grado di operatività massima, allora verranno prodotte batterie per 150 GWh di capacità, la quantità che è in grado di dare energia ad almeno 1.5 milioni di auto elettriche che funzionano con batterie da 100 kWh.
Abbiamo parlato anche dell’implementazione delle infrastrutture, le stazioni di ricarica e distribuzione dell’energia elettrica. Ad oggi siamo ancora nella situazione in cui le reti a maggiore efficienza energetica sono concentrate per lo più in aree ristrette, solitamente centri urbani con alta densità di popolazione. Oggi il numero di stazioni di ricarica, contando quelle presenti in tutto il mondo, non raggiunge nemmeno le 90.000 unità.
L’obiettivo più lungimirante è quello di sviluppare e promuovere nuovi sistemi di ricarica dei veicoli elettrici, più veloci e performanti, in grado di ottimizzare quelle che sono le risorse energetiche.

da "il Giorno"
 
La strada elettrica dei motori del futuro

–di Massimo Mambretti -2018
Il Sole 24 Ore

La roadmap che conduce alla rivoluzione della mobilità attraversa, da oggi, tre periodi: il 2020, il 2025 e quello che lo seguirà. Fondamentalmente queste date corrispondono all’offerta di auto full-electric che lasci la possibilità di scegliere quale modello scegliere, a inedite interpretazioni di quelle ibride, all’inserimento di varianti a Emissioni Zero in tantissime famiglie di modelli, allo sviluppo di tecnologie per la propulsione tradizionale per aumentarne l’efficienza e ridurre i consumi e, infine, al graduale raggiungimento di un’equa ripartizione delle vendite fra le vetture a emissioni bassissime o zero e quelle con motori endotermici. Insomma, l’auto elettrica non manderà in pensione a breve termine quella con motori tradizionali. Ma prima di vedere quali tappe porteranno alla diffusione di massa dell’auto elettrica è bene precisare che bisogna superare la scarsità dei punti ricarica rapida. Infatti, quella dalla presa di casa è di emergenza, adatta solo a rifornire lentamente un po’ le batterie e influenzata dall’efficienza dell’impianto da cui ci si approvvigiona.
Ora, vediamo alcuni punti fondamentali dello scenario che ci porterà dopo il 2025. A livello generale lo sviluppo dell’auto elettrica procede a passo spedito, ma la strada che porta al rapporto ottimale fra costo, efficienza e autonomia è ancora lunga. Certo, alcuni gruppi automobilistici, in particolare quelli tedeschi, sono più avanti di altri. Hanno già sviluppato architetture e moduli elettrici adatti a vetture di tipologie diverse e stanno studiando unità elettriche compatte, leggere e più performanti. Tuttavia, come tutti gli altri, si trovano di fronte ai tempi di sviluppo di batterie più compatte, meno pesanti, più potenti, allo stato solido come quelle cui lavora Panasonic con Toyota che riducono i tempi di ricarica o quelle pouch che sempre Panasonic sviluppa con Jaguar con alte proprietà di dissipazione del calore, con una resa più stabile e con un costo inferiore rispetto a quelle odierne. Al Sole 24 Ore i responsabili dello sviluppo batterie e dell’innovazione strategica della Solvay, azienda in partnership con produttori di batterie e case automobilistiche, hanno indicato che attualmente per risolvere questa complessa equazione occorra ipotizzare una decina di anni.
Intanto, si affinano le tecnologie destinate sia alle auto elettriche e ibride sia a quelle con motori termici, vagando anche nei territori del metano. Su questo gas a impatto zero per l’ambiente puntano con maggiore determinazione rispetto ad altri, per esempio, i gruppi Fca e Vw. Infatti, almeno in Europa, tra cinque/sei anni inizierà a calare la richiesta di Metano per uso domestico. Quindi, le reti di distribuzione si rivolgeranno verso l’autotrazione. Nel frattempo, si sviluppa il bio-Metano prodotto dall’agricoltura e dalla raccolta dell’umido. Per questo tipo di alimentazione si stanno studiando motori non più bi-fuel, ma progettati con impianti di iniezione diretta solo per questo gas.
Parallelamente l’elettrificazione fa capolino tra i motori a benzina e turbodiesel sia per ottimizzare la sovralimentazione che, tra l’altro, punterà sempre più su turbo a geometria variabile sia per lenire i loro sforzi, renderli più puliti e integrarli meglio in sistemi propulsivi ibridi. Per raggiungere questi obiettivi sono allo studio motori a benzina a ciclo continuo Miller, con bassi attriti, con accensione per compressione come lo Skyactiv-X di Mazda che rende la combustione super-magra per incrementare l’efficienza, con impianti d’iniezione ad alta pressione, integrati a filtri per il particolato e, infine, impianti elettrici a 48V sempre più complessi. Sono destinati non solo alle vetture full-hybrid ed elettriche, ma anche alla proliferazione di micro e mild-hybrid. Queste ultime saranno capaci sia di offrire maggiore resa con minore spesa di carburante sia di utilizzare il piccolo motore elettrico per muoversi, per esempio, nei parcheggi o per dare motricità all’asse non di trazione. In sostanza, per trasformare la vettura, all’occorrenza, in 4x4. Va ancora aggiunto che dilagheranno impianti di scarico in cui saranno presenti catalizzatori tradizionali e ad accumulo per i turbodiesel.
Infine, procede lo sviluppo di inedite interpretazioni di trasmissioni a doppia frizione e automatiche. Per esempio, la Vario.Drive dell’Audi con quattro marce fisse e cinque azionate da un motorino elettrico pensata per le ibride plug-in e la SkyActiv Drive della Mazda che blocca subito il convertitore e intuisce cosa vuole fare chi guida grazie a un sofisticato software, per aumentare la dolcezza di funzionamento ed evitare sprechi energetici.
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MAH! -Chi avrà ragione Sapelli o i giornali? Chi vivrà vedrà!
 
Massimo Ammaniti: "Gli adultescenti? Hanno l'età di Salvini e Renzi: genitori che sembrano teenager"

Intervista allo psicanalista che nel suo ultimo libro "Adolescenti senza tempo" spiega come un periodo della vita si è trasformato in condizione permanente



Dentro ogni adolescente di oggi c'è un Ulisse che "affronta un'odissea personale lunga e tempestosa prima di ritrovare dentro di sé il proprio luogo delle origini". Ed è un peregrinare controverso, che a volte acquisisce una dimensione infinita, quello raccontato nel suo ultimo libro "Adolescenti senza tempo" (Raffaello Cortina Editore, pp. 219) dallo psicanalista Massimo Ammaniti, professore onorario di Psicopatologia dello Sviluppo alla Sapienza di Roma e padre dello scrittore Niccolò ("sono stato un padre autorevole. Con mio figlio abbiamo un rapporto amichevole"). Il saggio – che si struttura secondo una complessa, ma comprensibile, analisi del fenomeno – sottolinea come l'età transitoria per eccellenza si sia trasformata in "una condizione permanente. Si vive – spiega Ammaniti - in un qui e ora dove il futuro è nebuloso, e dove il passato è quello lontano da cui ci si vuole staccare. I giovani così ristagnano in una passiva rassegnazione, nella quale le cose importante sono i social network, i telefonini e il consumismo. Sintetizzando: un tempo l'adolescenza finiva con i 20 anni, ora è pressoché eterna".

Di chi sono le responsabilità?

Della fluidità della famiglia, delle difficoltà a trovare lavoro, ma anche dalla diffusione della cultura del narcisismo. A causa di tutto questo viene meno la stabilità intergenerazionale del passato. Il mondo è più complesso, le persone sono molto più insicure, tutto è più fluido e instabile. Le famiglie non sono chiaramente più quelle del passato.

A soffrirne di più sono i genitori o i figli?

Entrambi. E ognuno ha la sua responsabilità. I genitori forse ne hanno di maggiori. Quando un genitore compra al bambino di 8 anni il cellulare e lo asseconda in ogni moda, facendolo diventare fin dai primi anni preda del consumismo, la colpa è sua.

È una situazione che si ritrova solo in Italia?

È tipica dei paesi del Mediterraneo, come Spagna e Grecia. Ma il tema dell'adolescenza, oggi più che mai, è il tema dell'identità: del raggiungimento di un'identità personale, che apre le porte al mondo adulto. È la necessità di prendere una direzione, di riconoscersi, di comprendere le proprie vocazioni e i propri interessi arrivando alla costruzione di un sé stabile.

Quanto si è trasformata l'adolescenza negli ultimi decenni?

Adesso gli adolescenti, che si staccano dal gruppo famigliare, trovano un riferimento nei coetanei. Tutto è poi molto amplificato dai social network, e dalla cultura del like.
Ma la ricerca dell'identità non solo riguarda i teenagers, perché scivola fino ai trent'anni. Oggi sempre più i giovani vivono in famiglia e hanno un problema a distaccarsi dal mondo dei genitori. Come dice Adam Phillips: "I genitori si trovano ad affrontare un bilancio personale, cercando di nascondere il tempo che passa. Mentre i figli cercano di distaccarsi per cercare di liberarsi dalla setta familiare".

Me la descrive questa setta famigliare?

Negli ultimi anni nascono molti meno figli all'interno della coppia. E questi pochi figli, fin dalla nascita, sono al centro dell'universo dei genitori. Un universo dove le differenze generazionali vengono meno. Se prima c'era il sottosistema dei figli e dei genitori, adesso il figlio si trova sulla stessa barca dei genitori. Come diceva Bauman: la famiglia è liquida.
E così le distanze generazionali tendono a sfumare. Gli stessi genitori sono, per citare i protagonisti di un altro suo libro, degli adultescenti.
Sono adulti che cronologicamente potrebbero essere dei genitori, ma continuano ad avere delle caratteristiche adolescenziali. Sono presi da loro stessi, dall'affermarsi, non vogliono invecchiare. Hanno un atteggiamento di deresponsabilizzazione assoluto.

Le radici degli adultescenti dove potremmo trovarle?

Nel giovanilismo imperante, che si nutre di una spasmodica ossessione per la giovinezza. In passato i genitori affrontavano un percorso che li portava ad essere adulti. Ora si vestono tutti allo stesso modo, con la felpa e con i blue-jeans, tutti vanno con il motorino e lo zainetto. Tende ad esserci un'omologazione che riguarda fasi diverse.
Pare che stia descrivendo uno stile proprio di alcuni protagonisti della nostra politica.
Anche loro, penso a Matteo Salvini e a Matteo Renzi, appartengono a questa generazione, e forse è il motivo per cui a entrambi manca l'autorevolezza. Pensi a personaggi del passato come De Gasperi o Moro. E poi pensi soltanto all'uso di Twitter, dove il problema della continenza non c'è più. Questo riflette il mondo adultescente.

Qual è uno dei problemi principali degli adolescenti?

La mancanza di genitori con cui confrontarsi, e non dei genitori-amici che si pongono sul loro stesso piano. Spesso, mentre in passato i genitori erano convinti del loro ruolo, oggi è come se avessero bisogno della conferma dei figli per essere tali. E un po' come succede in politica.
In che senso?
Oggi non potrebbe esistere Churchill che dice "vi prometto lacrime e sangue". Anche i politici di oggi vogliono il consenso, vogliono essere amati, e questo crea delle confusioni enormi. Non c'è più Edipo che lotta per affermare se stesso, ma spunta un narciso che si pone al centro dello scenario e che ha bisogno dei riconoscimenti e degli apprezzamenti altrui. Siamo sprofondati nella psicologia del follower.

Esiste una soluzione?

Credo che l'unica strada possibile sia cominciare a capire che questo percorso porterà dei guai, e già li cominciamo a vedere. Ormai il primato non è più della conoscenza, ma delle affermazioni personali. Forse si arriverà a una situazione tale che bisognerà rimettere un po' tutto in discussione.
Allora cosa accadrà?
Forse arriveremo a capire che certi valori non si possono perdere. E così ricondurre le cose là dove l'uomo, fin dall'origine, ha avuto una sua evoluzione.


Flavia PiccinniScrittrice e giornalista

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Mah!!penso che le nuove generazioni risentono e risentirano anche dal "DIVORZIO" che se ritornassi indietro
voterei NO, dalle droghe che sono ritornate a friggere i cervelli sempre dei più giovani alle quali si avvicinano,
e inoltre del cattivo uso che sin da piccoli viene fatto dei social e della rete.....
 
Il lavoro stabile è diventato un sogno

Un’esperienza personale in un mondo globalizzato

4 novembre 2018

di Savino De Rosa


Era il 1968 quando, appena laureato in ingegneria, cercavo di orientare le mie scelte lavorative tra le varie opportunità che si presentavano a quei tempi. Potevo iniziare un percorso nell’ambito universitario o nella libera professione, ma scelsi il mondo dell’industria che più si confaceva al mio carattere tendente alla realizzazione di obiettivi tangibili in tempi brevi. Allora il lavoro dava sicurezza, stabilità, identità, soddisfazioni e consentiva di programmare il tuo futuro, crearti una famiglia, acquistare una casa e anche mettere da parte dei risparmi, sempre garantiti.

In passato cambiare azienda era una libera scelta per un laureato, non un obbligo imposto da strategie politico-economiche e pertanto, per migliorare a livello professionale ed economico, a metà anni 70 approdai ad una multinazionale che aveva ambiziosi programmi d’investimento non solo nella ricerca per lo sviluppo di nuovi prodotti e nell’evoluzione di tecnologie di produzione, ma anche nella formazione delle persone a tutti i livelli, con corsi articolati nelle diverse discipline, allora prioritari sugli interessi del business.

Nei primi anni ‘90 lo scenario cambia:: si sviluppa la logica del profitto massimo con gli slogan “lean and mean”(snello ed essenziale) e “less is more” (meno siamo meglio facciamo). Le aziende si attrezzano per perseguire questi obiettivi e iniziano processi di ristrutturazione dei siti produttivi, con concentrazioni di attività in un minor numero di siti e armonizzazione dei prodotti per ottimizzare le varie componenti, ridurne i costi e incrementare i profitti. Si incominciano a delocalizzare le attività in nazioni con manodopera a basso costo dando inizio così ad un processo di globalizzazione mirante al massimo profitto, incurante non solo dei consequenziali squilibri socio-economici, ma anche spesso poco centrato su alte competenze e abilità di un personale più qualificato, favorendo nelle posizioni chiave personaggi ambiziosi e competitivi con competenze limitate, ma pronti ad accettare i piani delle holding guidate dal potere finanziario. E così il lavoro stabile e sicuro di un tempo è diventato un sogno e “da nobile è diventato mobile”.

Per dar valore a ciò che scrivo, mi sembra giusto raccontare in questo scritto una mia esperienza personale. Era l’autunno 2002 e in pieno processo di globalizzazione, avendo già raggiunto una posizione dirigenziale di livello elevato, fui invitato a partecipare ad un corso di formazione di tre giorni, organizzato a livello internazionale. Fu creata ad hoc un’atmosfera di suspense: la località non veniva indicata (ci sarebbe stata precisata durante il viaggio), si consigliava di portare un abbigliamento leggero, qualche protezione solare e occhiali da sole. Incominciai a fantasticare pensando a qualche località di mare, come Le Canarie o le Mauritius, scambiai considerazioni con qualche collega per cercare di avere informazioni sull’argomento del corso che non era indicato, come di solito avveniva.
Nel giorno della partenza, noi dirigenti delle aziende italiane ci incontrammo all’aeroporto di Fiumicino (Roma): qualcuno indossava shorts, altri camice variopinte e quant’altro, in tenuta estiva. Fummo imbarcati poi su un volo con prima destinazione Barcellona, mentre nell’aria aleggiava la massima suspense. Sull’aereo, su ciascun posto c’era un libricino dal titolo “Who moved my cheese?” (Chi ha spostato il mio formaggio?) di Spencer Johnson, pubblicato nel 1998, con l’invito di leggerlo prima della fine del viaggio.

In sintesi esso raccontava la storia di due topi e due gnomi che, non trovando il formaggio nel solito posto, sono costretti a cercarlo altrove per non morire di fame. Guidati dallo stomaco vuoto, i topi sono più rapidi nel decidere di partire alla ricerca del formaggio, mentre gli gnomi incominciano a discutere, perdendo tempo prezioso. Uno dei due alla fine decide di mettersi alla ricerca di cibo e lungo il suo percorso lascia incoraggianti messaggi al compagno rimasto a casa, per indicargli il cammino nel caso si decidesse finalmente a muoversi.
L’allegorico messaggio che l’autore voleva dare risultò chiaro per noi che operavamo in una multinazionale: le situazioni cambiano, bisogna capire e subito attivarsi per gestire il cambiamento ovunque esso porti, soprattutto in campo lavorativo, per continuare a vivere..

Arrivati all’aeroporto di Barcellona sotto un diluvio incredibile, fummo imbarcati su un volo per Almeria (Andalusia, in Spagna) dove tra distese rocciose e canyon si trova un noto villaggio con set cinematografici dove si girano film western, in particolare quelli un tempo denominati “spaghetti western”, come “Per un pugno di dollari” e tanti altri. Purtroppo di sole neanche a parlarne! Solo pioggia e nei giorni seguenti vento e freddo! E qui iniziò un’esperienza unica, ma veramente significativa per gli obiettivi del corso di formazione e della multinazionale.
Fummo divisi in gruppi formati da persone di nazionalità diversa e a ogni gruppo fu assegnato un copione in base al quale ciascun partecipante doveva scegliere la sua parte. Il copione del nostro gruppo era centrato sul tema di una rapina ad una banca in un villaggio del far west. Dopo ampia discussione, scelsi il ruolo dello sceriffo che mi fu concesso solo in ossequio alla mia età.

Fummo truccati da esperti nel campo e mi fu disegnato uno sfregio sul viso che accentuava l’aspetto truce, poi ognuno di noi scelse il proprio abbigliamento. Indossai gli abiti da sceriffo con un pastrano di pelle nera (che mi salvò dalle folate di vento freddo), un cappello scuro e imbracciai un prestigioso fucile Winchester.

Addobbati di tutto punto, venimmo trasferiti sul set dove ci aspettava una vera troupe cinematografica con macchina da ripresa, riflettori e regista…Ciack si gira: ero davanti all’ufficio dello sceriffo, vicino alla banca, dove il direttore era indaffarato nella conta dei soldi, mentre più in là c’era il bar con i suoi avventori. Dal fondo della stradina arrivarono i banditi a cavallo e, mentre cercavo di usare il winchester, due di essi mi legarono a un palo e dopo la rapina, all’uscita dalla banca, un bandito (donna!) mi passò accanto e mi sferrò un ceffone (finto)…poi tutti rimontarono a cavallo e scapparono via.. Fine. Anche gli altri gruppi realizzarono il loro filmato, mentre il numero uno della multinazionale, vestito da capo indiano, girava tra i set cavalcando un sauro andaluso bianco.

Il sottoscritto, nelle vesti di sceriffo
Nella giornata conclusiva ci trovammo tutti in una grande sala dove vennero proiettati tutti i filmati che erano di buon livello. A questo punto lo scopo del corso e l’insegnamento ricevuto furono chiari: la storia dei due topi e dei due gnomi ci aveva già preparati al tema del cambiamento che va affrontato attivandosi subito per avere un posto di lavoro ovunque esso si trovi. Girare un film tra persone che non si conoscono, svolgere un ruolo nuovo e conseguire obiettivi positivi metteva in rilievo che le qualità individuali, ben stimolate, possono portare a risultati inaspettati. Senza dubbio con i tre giorni in Almeria la multinazionale ci dimostrò che l’immobilismo è deleterio in un mondo globalizzato. Insomma il cosiddetto “posto fisso” era tramontato e con esso le libere scelte, il senso di appartenenza ad un’azienda e alle proprie radici.
Personalmente non condivido questa impostazione del mondo del lavoro che ha creato insicurezza, riduzione di posti, perdita di identità e professionalità.
 
CARA EUROPA, TI SCRIVO…

Unione Europea: un sogno svanito?

10 ottobre 2018
di Giovanna D’Arbitrio




Populisti ed euroscettici

Mi è venuta in mente la canzone “L’Anno che verrà” di Lucio Dalla, mentre guardavo vari Tg con notizie allarmanti su miliardi bruciati in Borsa insieme ai risparmi di italiani onesti, su populisti e xenofobi inneggianti alle loro vittorie in Italia e all’estero e imperversanti contro l’Unione Europea nella convinzione di liberarsi da migranti e crisi economiche, come se la globalizzazione non esistesse, incuranti delle guerre che oggi si fanno anche a suon di Spread e agenzie di rating
Le note della canzone risuonavano nella mia memoria qua e là con alcuni versi:

-“Caro amico ti scrivo
così mi distraggo un po’…
L’anno vecchio è finito ormai,
ma qualcosa ancora qui non va…
e la televisione ha detto che il nuovo anno
porterà una trasformazione
e tutti quanti stiamo già aspettando…
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno,
ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno…
Vedi ,caro amico cosa si deve inventare
per poter riderci sopra, per continuare a sperare…

Padri fondatori

”Insomma tali parole sembravano dipingere l’illusione populista e xenofoba che parla alla pancia della gente, contro il sogno di un’Europa unita e solidale
Memori della cosiddetta “guerra fredda” tra USA e URSS, in effetti, da giovani sognammo un’Europa forte e unita dai grandi valori di Pace, Democrazia e Libertà, una sorta di grande confederazione, un enorme Stato “cuscinetto” che bilanciasse il potere delle suddette superpotenze.
Pensavo a tutto ciò, mentre immagini minacciose di Spread in ascesa scorrevano sullo schermo televisivo e intanto immaginavo di dialogare con Italia ed Europa:
“Che fine farai, Italia, da secoli terra di conquista?
E tu, Europa sarai ancora in balia di paesi più forti e speculazioni finanziarie?”.
Cara Europa, ti scrivo questa lettera per ricordarti che purtroppo uno scontento generalizzato sta causando confusione e crollo di ideali, mentre cresce la delusione verso di te, indebolita da egoismo e mancanza di solidarietà, da Brexit e separatismi vari (vedi Catalogna), non più capace di incidere in modo significativo sulle politiche internazionali.

Cara Europa, i Padri Fondatori dell’Europa Unita, come Jean Monnet, Robert Schuman, Alcide De Gasperi, Paul-Henri Spaak, Konrad Adenauer non parlarono di banche e di Spread, ma di Pace e Libertà dopo sanguinose guerre mondiali che li indussero ad intraprendere un percorso verso l’unità europea che era iniziato con il “Manifesto di Ventotene”, elaborato negli anni ‘40 da Spinelli, Rossi e Colorni.

E ci poniamo ancora tante domande: “Perché si mettono in difficoltà i paesi più deboli? Perché l’Italia è stata lasciata sola ad affrontare il problema dei migranti, mentre venivano costruiti muri e chiuse frontiere per respingere gente martoriata da guerre, fame e orribili violenze? Eppure i migranti parlano prevalentemente in francese e in inglese, retaggio di colonialismi e neocolonialismi. Perché l’Onu non ha coinvolto tutti i paesi del mondo, in particolare quelli più potenti? Perché non si cerca di creare “vivibilità” in Africa e Asia?”.
Cara Europa, purtroppo se continueranno a predominare egoismi e alta finanza, ancora una volta saremo alla mercé di superpotenze e caste mondiali. E il problema di crisi economiche e migranti non sarà certo risolto, se non verrà affrontato non solo a livello europeo ma anche mondiale.|

Per concludere vorrei ricordare la poesia di John Donne “Per chi suona la campana”(For Whom the bell tolls) e la dedico a te, vecchia Europa, poiché quando una campana rintocca ci ricorda che siamo una parte di un “insieme” e le nostre azioni si ripercuotono sugli altri.
Non a caso Ernest Hemingway s’ispirò a J. Donne per il titolo del suo famoso romanzo “Per chi suona la campana”, in cui la guerra è vista come un mostro sanguinario che uccide uomini messi gli uni contro gli altri, pedine di una scacchiera in cui le mosse sono decise dai potenti e da interessi di vario genere. E la campana suona per ricordarci che individualismo ed egoismo ci sminuiscono e arrecano solo danni. Ecco la poesia di J. Donne:
Nessun uomo è un’isola,
completo in se stesso.

Ogni uomo è parte della Terra, _una parte del tutto
Se una zolla è portata via dal mare,
l’Europa risulta essere più piccola,
come se fosse un promontorio
come se fosse una tua proprietà, _oppure quella di tuoi amici,
La morte di ciascun uomo mi sminuisce,
perché faccio parte del genere umano
E perciò non chiederti
per chi suoni la campana.
Essa suona per te.
 
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