Non ci credo
Lucia Annunziata
Un Governo fra 5 Stelle e Pd, nonostante le prime buone intenzioni, rimane poco fattibile
In effetti, a meno di essere estremamente ottimista (ma molti dentro il Pd sostengono che il presidente sia incline all'ottimismo quando si parla del Pd), è molto improbabile che un partito che ancora non ha trovato una versione comune su cosa sia successo il 4 dicembre 2016 (la sconfitta del referendum), e il 4 marzo 2018 (le elezioni nazionali), e il cui segretario è dimissionario ma non sostituito (l'assemblea che doveva decidere sulla successione il 21 di questo mese è stata spostata a data da definire), riesca a decidere addirittura su una alleanza di peso quale quella che gli viene richiesta in questo momento.
E forse non ci crede, sotto sotto, nemmeno lo stesso presidente che ha dato a Roberto Fico, per esplorare la possibilità di fare un Governo fra i 5 Stelle e il Pd, sole 72 ore. Tempo maledettamente breve se si considera che le esplorazioni per un Governo centrodestra-M5S hanno avuto tre settimane.
Anche questo ultimo giro di consultazioni sembra dunque parte di quegli "atti dovuti", da fare e mettere nello scaffale, dove finiscono "tutti i tentativi espletati".
Ma se anche questo ultimo giro fallisse, cosa avremmo davanti? Davvero siamo destinati a un Governo del presidente? Non necessariamente.
Al di là dei fallimenti formali, l'unico "forno" che ha davvero funzionato è stato proprio quello del Colle, che con la sua lentezza ha bruciato tutte le scorie della varie finzioni, facendo emergere il quadro reale. A 50 giorni dall'apertura delle urne abbiamo così molti più elementi di conoscenza sul posizionamento e sulle intenzioni di tutti i protagonisti di questo semi-dramma.
Silvio Berlusconi è forse il leader che ha più perso in queste settimane. Consacrato dalle urne moderato di reputazione internazionale, reinventato in questo suo ruolo dalla necessità delle istituzioni politiche di trovare un garante, un'alternativa, al sovranista Matteo Salvini, il leader di Forza Italia è stato reinghiottito dalla sua storia. Dopo essere stato umiliato dalla più umiliante delle trattative - la richiesta della sua testa come condizione per la creazione di un nuovo governo – Silvio è stato raggiunto dalla più antica delle ombre sulla sua reputazione, il rapporto con la mafia, dopo la sentenza di condanna in primo grado a Marcello Dell'Utri sulla Trattativa Stato-Mafia. 50 giorni dopo Silvio è più debole di prima.
Matteo Salvini, proprio grazie all'indebolimento del suo partner, si è sempre più convinto che la sua leadership non passi per una rottura con Forza Italia. Al contrario, mai come oggi, il centrodestra è una prateria aperta alla sua conquista. La permanente incertezza di Forza Italia rende ormai molto possibile, oltre che probabile, che i voti e gli eletti del partito di Silvio individuino in lui il leader di un nuovo centrodestra unito. Altro che rompere per unirsi ai 5 Stelle.
Matteo Renzi, di cui si parla poco, è in realtà già rientrato nel gioco. Il segnale del suo rientro dall'Aventino, su cui per altro non è mai davvero salito, si è avuto il giorno in cui ha spostato l'assemblea ( convocata per sabato scorso, 21 aprile) che avrebbe dovuto nominare il suo successore o deciso il percorso per scegliere il suo successore. Spostamento a data da definire – il che vuol dire che un Renzi non sostituito è ancora il segretario sia pur dimissionario, e che qualunque processo ripassa per lui. La partita che ha avviato non sembra difficile da capire: piegare i 5 Stelle. Gli serve intanto per vendicare quella dignità politica che i 5 Stelle hanno ferito nel corso di una lunghissima campagna contro la sua persona oltre che contro il suo Governo: quando Di Maio avrà bisogno di lui per decidere su un governo con il Pd Renzi gli dirà, come già si capisce "solo se tu non sei il premier". L'umiliazione di Luigi Di Maio è però anche funzionale per il futuro posizionamento dell'(ancora non) ex segretario Pd. Un partito già oggi lacerato uscirà ancora più diviso da questa scelta o meno di Governo con M5S. Ma il collasso dell'unità avrà fatto chiarezza e liberato Renzi, permettendogli di collocarsi su diverse basi: il declino di Forza Italia su cui opererà Salvini sarà un terremoto interno alla destra che lascerà in libertà voti di forzisti che non condividono il sovranismo e che cercano, per amore o per forza, una via d'uscita moderata. Esattamente l'uscita su cui si collocherà Matteo Renzi, con il Pd o con il famoso partito tutto suo. La direzione convocata dopo le esplorazioni potrebbe dare già una indicazione sulla praticabilità o meno di questo percorso di Renzi.
Luigi Di Maio, nonostante il suo clamoroso 33 per cento, è diventato oggi l'anello più debole di questa catena di reazioni e controreazioni innescata dalle consultazioni. È il più debole perchè in trattative in cui ognuno dei leader ha varie opzioni, si è fidato, si è limitato, e si è fissato su un unico gioco: essere il premier. Ambizione giusta e peraltro dovuta, visto il risultato delle urne. Ma nelle fluidità delle relazioni politiche attuali, la fissità del suo percorso ha fatto di lui un facile obiettivo da abbattere – l'unico a testa emersa in un gioco di trincee dove tutti stanno coperti. È bastato dire no a questa condizione, come ha fatto Salvini, e come intende fare Renzi, per distruggere la sua posizione. Di Maio pare aver peccato di ingenuità nonostante l'aria di politico adulto che mostra: si è fidato di Salvini e rischia ora di fidarsi di Renzi ed è probabile che si tornerà a fidare di Salvini. I pentastellati, e Di Maio, cominceranno a sapersi affermare quando ammetteranno , innanzitutto a se stessi, che il Governo, lo Stato, la politica sono elementi complessi. Cosa questo significhi, se mi si permette una piccola digressione, è rappresentato dalla foto di Roberto Fico che va a piedi al Quirinale, in un'ottima scelta di semplicità che diventa, nella realtà, una scelta disfunzionale, come ha ben colto su Repubblica Sergio Rizzo. Misure, alleanze, passaggi, è l'itinerario che i pentastellati dovranno percorrere – senza diventare venduti al sistema – per diventare forza di governo. Un vero calvario per certi versi, ma necessario.
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Essere nei panni di Mattarella in questi giorni deve essere molto difficile. Come si vede, i partiti oggi già non sono quelli del 5 marzo mattina. Ma il problema, l'intoppo, il busillis direbbe Totò, è che tutte queste trasformazioni non rilasciano comunque numeri sufficienti a nessuna alleanza. Nemmeno quella per un forte "Governo del presidente" su cui peseranno i rifiuti incrociati di tutti a cedere sovranità a qualunque altro leader o partito.
Un'ultima opzione ci sarebbe: potrebbe accadere che, dopo un lungo giro, si torni indietro.
Domenica prossima si sarà esaurito anche l'ultimo appuntamento elettorale del Friuli, e Matteo Salvini, con Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio a penne basse dopo tante smusate, potrà mettere infine in moto la sua macchina di conquista del centrodestra rilanciando un governo con i pentastellati. Di Maio e Salvini hanno vinto il voto popolare, hanno programmi comuni e sono compatibili l'uno con l'altro. È questa in fondo l'unica vera soluzione, sostenibile nei numeri e coerente con il risultato delle urne.
Che poi questo governo piaccia o meno, è un altro discorso. Il voto rimane sovrano. E la democrazia italiana non è così fragile, come si è visto nella forza e nell'ostinazione di queste consultazioni, da non permettere una vigorosa opposizione.
Lucia Annunziata
Un Governo fra 5 Stelle e Pd, nonostante le prime buone intenzioni, rimane poco fattibile
In effetti, a meno di essere estremamente ottimista (ma molti dentro il Pd sostengono che il presidente sia incline all'ottimismo quando si parla del Pd), è molto improbabile che un partito che ancora non ha trovato una versione comune su cosa sia successo il 4 dicembre 2016 (la sconfitta del referendum), e il 4 marzo 2018 (le elezioni nazionali), e il cui segretario è dimissionario ma non sostituito (l'assemblea che doveva decidere sulla successione il 21 di questo mese è stata spostata a data da definire), riesca a decidere addirittura su una alleanza di peso quale quella che gli viene richiesta in questo momento.
E forse non ci crede, sotto sotto, nemmeno lo stesso presidente che ha dato a Roberto Fico, per esplorare la possibilità di fare un Governo fra i 5 Stelle e il Pd, sole 72 ore. Tempo maledettamente breve se si considera che le esplorazioni per un Governo centrodestra-M5S hanno avuto tre settimane.
Anche questo ultimo giro di consultazioni sembra dunque parte di quegli "atti dovuti", da fare e mettere nello scaffale, dove finiscono "tutti i tentativi espletati".
Ma se anche questo ultimo giro fallisse, cosa avremmo davanti? Davvero siamo destinati a un Governo del presidente? Non necessariamente.
Al di là dei fallimenti formali, l'unico "forno" che ha davvero funzionato è stato proprio quello del Colle, che con la sua lentezza ha bruciato tutte le scorie della varie finzioni, facendo emergere il quadro reale. A 50 giorni dall'apertura delle urne abbiamo così molti più elementi di conoscenza sul posizionamento e sulle intenzioni di tutti i protagonisti di questo semi-dramma.
Silvio Berlusconi è forse il leader che ha più perso in queste settimane. Consacrato dalle urne moderato di reputazione internazionale, reinventato in questo suo ruolo dalla necessità delle istituzioni politiche di trovare un garante, un'alternativa, al sovranista Matteo Salvini, il leader di Forza Italia è stato reinghiottito dalla sua storia. Dopo essere stato umiliato dalla più umiliante delle trattative - la richiesta della sua testa come condizione per la creazione di un nuovo governo – Silvio è stato raggiunto dalla più antica delle ombre sulla sua reputazione, il rapporto con la mafia, dopo la sentenza di condanna in primo grado a Marcello Dell'Utri sulla Trattativa Stato-Mafia. 50 giorni dopo Silvio è più debole di prima.
Matteo Salvini, proprio grazie all'indebolimento del suo partner, si è sempre più convinto che la sua leadership non passi per una rottura con Forza Italia. Al contrario, mai come oggi, il centrodestra è una prateria aperta alla sua conquista. La permanente incertezza di Forza Italia rende ormai molto possibile, oltre che probabile, che i voti e gli eletti del partito di Silvio individuino in lui il leader di un nuovo centrodestra unito. Altro che rompere per unirsi ai 5 Stelle.
Matteo Renzi, di cui si parla poco, è in realtà già rientrato nel gioco. Il segnale del suo rientro dall'Aventino, su cui per altro non è mai davvero salito, si è avuto il giorno in cui ha spostato l'assemblea ( convocata per sabato scorso, 21 aprile) che avrebbe dovuto nominare il suo successore o deciso il percorso per scegliere il suo successore. Spostamento a data da definire – il che vuol dire che un Renzi non sostituito è ancora il segretario sia pur dimissionario, e che qualunque processo ripassa per lui. La partita che ha avviato non sembra difficile da capire: piegare i 5 Stelle. Gli serve intanto per vendicare quella dignità politica che i 5 Stelle hanno ferito nel corso di una lunghissima campagna contro la sua persona oltre che contro il suo Governo: quando Di Maio avrà bisogno di lui per decidere su un governo con il Pd Renzi gli dirà, come già si capisce "solo se tu non sei il premier". L'umiliazione di Luigi Di Maio è però anche funzionale per il futuro posizionamento dell'(ancora non) ex segretario Pd. Un partito già oggi lacerato uscirà ancora più diviso da questa scelta o meno di Governo con M5S. Ma il collasso dell'unità avrà fatto chiarezza e liberato Renzi, permettendogli di collocarsi su diverse basi: il declino di Forza Italia su cui opererà Salvini sarà un terremoto interno alla destra che lascerà in libertà voti di forzisti che non condividono il sovranismo e che cercano, per amore o per forza, una via d'uscita moderata. Esattamente l'uscita su cui si collocherà Matteo Renzi, con il Pd o con il famoso partito tutto suo. La direzione convocata dopo le esplorazioni potrebbe dare già una indicazione sulla praticabilità o meno di questo percorso di Renzi.
Luigi Di Maio, nonostante il suo clamoroso 33 per cento, è diventato oggi l'anello più debole di questa catena di reazioni e controreazioni innescata dalle consultazioni. È il più debole perchè in trattative in cui ognuno dei leader ha varie opzioni, si è fidato, si è limitato, e si è fissato su un unico gioco: essere il premier. Ambizione giusta e peraltro dovuta, visto il risultato delle urne. Ma nelle fluidità delle relazioni politiche attuali, la fissità del suo percorso ha fatto di lui un facile obiettivo da abbattere – l'unico a testa emersa in un gioco di trincee dove tutti stanno coperti. È bastato dire no a questa condizione, come ha fatto Salvini, e come intende fare Renzi, per distruggere la sua posizione. Di Maio pare aver peccato di ingenuità nonostante l'aria di politico adulto che mostra: si è fidato di Salvini e rischia ora di fidarsi di Renzi ed è probabile che si tornerà a fidare di Salvini. I pentastellati, e Di Maio, cominceranno a sapersi affermare quando ammetteranno , innanzitutto a se stessi, che il Governo, lo Stato, la politica sono elementi complessi. Cosa questo significhi, se mi si permette una piccola digressione, è rappresentato dalla foto di Roberto Fico che va a piedi al Quirinale, in un'ottima scelta di semplicità che diventa, nella realtà, una scelta disfunzionale, come ha ben colto su Repubblica Sergio Rizzo. Misure, alleanze, passaggi, è l'itinerario che i pentastellati dovranno percorrere – senza diventare venduti al sistema – per diventare forza di governo. Un vero calvario per certi versi, ma necessario.
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Essere nei panni di Mattarella in questi giorni deve essere molto difficile. Come si vede, i partiti oggi già non sono quelli del 5 marzo mattina. Ma il problema, l'intoppo, il busillis direbbe Totò, è che tutte queste trasformazioni non rilasciano comunque numeri sufficienti a nessuna alleanza. Nemmeno quella per un forte "Governo del presidente" su cui peseranno i rifiuti incrociati di tutti a cedere sovranità a qualunque altro leader o partito.
Un'ultima opzione ci sarebbe: potrebbe accadere che, dopo un lungo giro, si torni indietro.
Domenica prossima si sarà esaurito anche l'ultimo appuntamento elettorale del Friuli, e Matteo Salvini, con Silvio Berlusconi e Luigi Di Maio a penne basse dopo tante smusate, potrà mettere infine in moto la sua macchina di conquista del centrodestra rilanciando un governo con i pentastellati. Di Maio e Salvini hanno vinto il voto popolare, hanno programmi comuni e sono compatibili l'uno con l'altro. È questa in fondo l'unica vera soluzione, sostenibile nei numeri e coerente con il risultato delle urne.
Che poi questo governo piaccia o meno, è un altro discorso. Il voto rimane sovrano. E la democrazia italiana non è così fragile, come si è visto nella forza e nell'ostinazione di queste consultazioni, da non permettere una vigorosa opposizione.